Federico Fubini Hilary

Tutto si può dire di Hillary Rodham Clinton, meno che sia una figura in disarmo. A 71 anni, dopo una delle più devastanti sconfitte che si ricordino in democrazia, Hillary è se stessa più che mai. O almeno riesce, senza difficoltà apparente, a farlo credere. Non è il suo «buongiorno» in italiano mentre si aggira per Villa d’Este, quasi perfetto, da globalista: una donna che continua a viaggiare e conosce esattamente come dire poche parole chiave in ogni lingua. Non è neanche l’abito di gusto asiatico, la borsa di gran marca, o il quaderno nero fitto di note sotto mano; Hillary non riesce proprio a calarsi nel ruolo della celebrità che compare agli eventi solo per i suoi tre quarti d’ora sotto i riflettori. Lei resta una «geek», una che non la smette di fare tutti i compiti — anche quando non servirebbe — e infatti al Forum Ambrosetti è rimasta per due giorni seduta al primo bancoaascoltare e prendere appunti mentre gli altri parlavano. No, che Hillary non sia in disarmo lo si vede soprattutto da come ha parlato ieri al Forum. Aveva una carica di fuoco in pancia come se la campagna elettorale non fosse finita tre anni fa, ma dovesse ancora iniziare. Hillary Clinton non ha perso un’oncia di energia neanche quando si è avvicinata ai temi più delicati del Paese che oggi la ospita. La giornalista Rula Jebreal le ha chiesto se per caso il populismo almeno in Europa abbia superato il suo picco d’intensità. «Difficile dirlo», ha risposto un filo enigmatica Hillary. « Per esempio qua in Italia è appena nato un governo che ha lasciato fuori una delle figure politiche più entertaining». Alla lettera: «divertente». Da ex capo del dipartimento di Stato, è così che Hillary sceglie di definire Matteo Salvini. Senza una parola di più, senza neanche nominare il leader della Lega. Ancora meno diplomatica, al confine dell’incidente, è poi quando Jebreal la mette davanti alla domanda più dura: «Secondo lei, Donald Trump è il presidente legittimo degli Stati Uniti d’America?». L’intervistatrice non specifica. Non chiarisce se siriferisca alle interferenze russe, o a quel netto vantaggio nel voto popolare che a Hillary non è bastato. Nel 2016 ha prevalso Donald Trump, semplicemente perché ha vinto più grandi elettori. Ma anche lì la candidata sconfitta non si tira indietro, sapendo benissimo che questo è il momento in cui tutti in sala pensano: è difficile essere Hillary, è dura portare in giro questo nome e questo volto, oggi. Lei attacca: «Ho preso quasi quattro milioni di voti in più di Trump e ora sappiamo dai risultati dell’inchiesta di Robert Mueller che l’interferenza russa nella campagna elettorale c’è stata. È provata. Trump ha vinto perché ha avuto più grandi elettori, per 70 mila voti». Punto, senza aggiungere altro. Senza riconoscere che oggi il presidente legittimo è l’altro. L’omissione è talmente palese che Jebreal torna all’attacco e le pone per la seconda la stessa domanda: Trump ha diritto o no a stare nella Casa Bianca? Stavolta Hillary non può sfuggire: «Nel nostro sistema, sì». L’incontro prevedeva un dialogo c o n L indsey Graham, repubblicano moderato per questi tempi. Ma la politica negli Stati Uniti è così divisa che anche con lui vengono fuori scintille quasi da subito. Succede quando Hillary stronca la politica dell’amministrazione sulla Corea del Nord («non funziona») o la decisione di denunciare l’accordo sul nucleare iraniano, ma ancora di più quando Graham propone di fornire energia nucleare civile nel Golfo purché Teheran non ne sviluppi a scopo militare. «Sono completamente in disaccordo», taglia corto. Sa che molti sono venuti qua con l’idea di vedere com’è possibile essere e agire da Hillary, oggi. Lei, con questa forza mentale, può.