Federico Geremicca

Il voto plebiscitario con il quale l’aula di Montecitorio ha definitivamente approvato la riduzione di oltre un terzo del numero dei parlamentari, potrebbe aver lasciato tra i cittadini-elettori una inedita e illusoria sensazione. E cioè, che l’intero sistema politico – dunque maggioranza e opposizione – di fronte a un passaggio definito storico per il Paese, sia in grado – nonostante tutto – di realizzare una responsabile unità di fondo. E che tale «miracolo» potrebbe dunque ripetersi quando ciò fosse realmente necessario. Purtroppo, chi è più dentro alle tortuose vicende politiche italiane, sa bene come il risultato registrato l’altro giorno alla Camera dei deputati sia il frutto episodico di una serie di irripetibili coincidenze di timori e di interessi. E infatti, al di là e subito dopo quel voto, la situazione si è confermata tesa e incerta: ed è caratterizzata da un quadro che potremmo definire di evidente «disordine». A ben vedere, infatti, non c’è uno solo dei leader in campo (se escludiamo naturalmente Conte) che si trovi nel posto dove vorrebbe essere a fare le cose che vorrebbe fare. Una rapida carrellata lo conferma. Nicola Zingaretti non vorrebbe stare con Di Maio e Di Maio non avrebbe voluto un governo col Pd; dopo tanto crescere, Salvini non vorrebbe tornare a stare con Berlusconi e l’ex Cavaliere, del resto, non vorrebbe rientrare in quell’alleanza alle condizioni poste dalla Lega; e Matteo Renzi, in fondo, ha certo voluto la nascita del governo giallorosso, ma ora ci sta stretto e scomodo: solo che è troppo presto per mandare già tutto gambe all’aria. Generalmente, in situazioni così – in cui gli insoddisfatti sono più dei soddisfatti – i governi non fanno molta strada. Quanta ne farà l’esecutivo in carica è difficile da prevedere, ma una cosa – dopo il taglio del numero dei parlamentari – è adesso certa: non si andrà al voto prima dell’approvazione di una nuova legge elettorale. Una legge che planerà sul grande «disordine» attuale con conseguenze che, evidentemente, non potranno esser certo neutre. Tanto in termini di stabilità dei governi quanto sul piano delle alleanze politiche, leggi proporzionali o maggioritarie non producono mai gli stessi effetti. Quale obiettivo si porranno, allora, grillini, centrodestra e centrosinistra? Il bivio appare chiaro: con una legge di segno proporzionale si torna all’antico – alla Prima Repubblica, per intendersi – e non si prova nemmeno a ricondurre ad ordine l’attuale disordine; una legge d’impronta maggioritaria, al contrario, permetterebbe di continuare il cammino (contradditorio) avviato all’inizio degli anni ’90 e – al di là degli effetti sulla governabilità del Paese – potrebbe produrre una semplificazione ed una maggior coesione interna agli schieramenti. Data la situazione, logica vorrebbe che si imboccasse la seconda strada. Ma le esigenze di questo o quel leader (da Renzi a Di Maio) rischiano di produrre il risultato opposto: con la prospettiva, tutt’altro che rassicurante, di proiettare anche sulla prossima legislatura il grande disordine che è sotto il cielo della politica italiana.