Federico Rampini
Jeffrey Sachs occupa un posto particolare tra gli economisti. Al Centro per lo sviluppo sostenibile, che dirige presso la Columbia University di New York, è riuscito a far convergere talenti ed energie da discipline molto diverse: non solo l’economia ma anche le scienze bio-fisiche, ambientali e sociali. All’avanguardia negli studi sulla sostenibilità e il cambiamento climatico, Sachs è anche lo studioso a cui le Nazioni Unite hanno affidato il World Happiness Report, lo studio periodico che sostituisce indicatori come il Prodotto Interno Lordo, per misurare il livello di felicità e armonia delle nazioni. Tra i temi a cui si è dedicato c’è l’impatto, sul lavoro umano e sulla dignità delle persone, di quella che viene definita la quarta rivoluzione industriale. Cioè l’avvento di forme di produzione e di servizi sempre più automatizzate, con un ruolo crescente dell’intelligenza artificiale. Come per ogni rivoluzione industriale, non occorre essere “luddisti” o nemici del progresso per avvertire i rischi di rotture sociali, traumi gravi e duraturi per le fasce più deboli, le persone meno preparate. È questo il tema su cui l’Accademia Pontificia delle Scienze Sociali ha invitato Sachs a tenere una conferenza a Roma. In questa intervista a Repubblica, l’economista americano anticipa alcuni dei temi del suo discorso e ne affronta altri legati all’attualità: dalla sfida cinese alle elezioni americane. I suoi colleghi economisti spesso hanno voluto sdrammatizzare e minimizzare le perdite di posti di lavoro provocate dall’automazione. La storia economica – dicono – insegna che la perdita di vecchi posti è accompagnata dalla creazione di nuove attività. Lei non è un tecno-ottimista ingenuo, ha più volte sottolineato che chi perde un lavoro oggi può trovarne domani uno meno pagato. Che cosa dobbiamo fare per sanare i traumi provocati da automazione e intelligenza artificiale? «Dobbiamo redistribuire reddito dai vincitori (cioè i proprietari delle industrie tecnologiche) verso coloro che sono rimasti indietro, gli sconfitti. Questa redistribuzione deve includere un sistema sanitario pubblico e universale, l’istruzione e la riqualificazione, alloggi popolari accessibili, e anche integrazioni di reddito per i lavoratori meno remunerati. Questi interventi vanno finanziati con maggiori prelievi fiscali sulle aziende e sui patrimoni dei ricchi». Se la produzione nelle nuove attività automatizzate richiede investimenti ad alta intensità di capitale, il rischio è che proprio i proprietari del capitale siano i maggiori profittatori del progresso tecnologico. Come impedire che si allarghino ulteriormente le diseguaglianze? «Sempre spostando la pressione fiscale sui profitti delle imprese. Inoltre le innovazioni tecnologiche devono avvenire con la modalità “open-source”, cioè l’accesso libero e gratuito alla proprietà intellettuale. È così che si può garantire un’ampia ed equa diffusione di innovazioni digitali nel campo dell’apprendimento, della salute, del governo, della finanza, e in molti altri settori». L’economia americana dopo dieci anni di crescita è vicina al pieno impiego. Ma che dire di tutti coloro che sono usciti dalla forza lavoro e quindi invisibili nelle statistiche sulla disoccupazione? C’è una parte di popolazione “non occupabile”, condannata all’inattività perché priva di talenti spendibili sul mercato del lavoro? «Se guardiamo al tasso di attività anziché al tasso ufficiale di disoccupazione, vediamo che in effetti quelli che hanno un lavoro, in percentuale sulla popolazione in età attiva, sono molto al di sotto rispetto ai massimi del passato. Il tasso di attività oggi è attorno al 61% mentre era del 64% ancora nell’anno 2000. Ci sono milioni di lavoratori scoraggiati, che non riescono più a trovare impieghi remunerati». Dall’impoverimento dei lavoratori e del ceto medio, fino alle diseguaglianze crescenti, quanto dipende dal progresso tecnologico, e quanto dalla globalizzazione, cioè la liberalizzazione degli scambi? «La maggior parte di questi cambiamenti derivano dall’innovazione tecnologica. C’è un vivace dibattito tra gli studiosi, che sono divisi su questi temi. Io direi che per il 70-75% pesa la tecnologia, il rimanente 25-30% viene dall’impatto del commercio estero e la concorrenza dei paesi emergenti». Tutto questo ha un ruolo nelle insurrezioni populiste che hanno sconvolto la geografia politica in America, Inghilterra, e altrove? «Di sicuro un fattore chiave nell’ascesa del populismo è il divario crescente di redditi fra coloro che hanno un titolo di laurea o post-universitario e tutti gli altri lavoratori. I meno istruiti sono la base elettorale di molti politici populisti, tra questi certamente Donald Trump. Tuttavia i populisti non offrono soluzioni a questa base sociale. Trump anzi sta peggiorando le cose per quelli che lo votarono. È un truffatore, non aiuta i lavoratori. La sua azione di maggiore impatto è stata la riduzione delle tasse sui ricchi». In tema di innovazione, a lungo abbiamo dato per scontato che l’America con la sua Silicon Valley fosse sempre leader. Ma sottovalutiamo l’avanzata della Cina? Quali le conseguenze, se la Cina sorpassa gli Stati Uniti in settori chiave come l’Intelligenza Artificiale? «In Cina c’è un boom di tecnologie domestiche, inventate in loco ed autonomamente. Intelligenza artificiale, 5G, robotica, commercio online, metodi di pagamento digitale. La Cina ha ormai raggiunto la parità con gli Stati Uniti in molte tecnologie. La conseguenza principale che dovremmo trarne è questa: Stati Uniti ed Unione europea dovrebbero investire più risorse pubbliche nella scienza e nella tecnologia. È un investimento importante. Invece non dovremmo continuare le guerre commerciali con la Cina, che non risolvono nulla». Nel dibattito tra candidati democratici alla nomination per l’elezione presidenziale del 2020, lei vede emergere idee nuove su come affrontare le conseguenze della quarta rivoluzione industriale? «I democratici sono molto meglio di Trump ma ancora non hanno raggiunto un consenso, né definito una strategia. La maggior parte dei candidati vogliono più regole sull’industria tecnologica, più tasse sui ricchi e più servizi pubblici per lavoratori e poveri. Tutte cose giuste e importanti. Elizabeth Warren e Bernie Sanders parlano di smembrare i giganti digitali per avere più concorrenza. Andrew Yang ha introdotto nel dibattito il reddito universale di cittadinanza. Se vincerà un democratico avremo sicuramente politiche più progressiste. Gli Stati Uniti ne hanno un gran bisogno perché soffrono di diseguaglianze massicce nel reddito, nella ricchezza, nel tenore di vita, nonché di gravi ingiustizie nel sistema fiscale».