Flavia Perina
Il rapporto di Unioncamere sulla fame di laureati del nostro sistema economico, con il deprimente scenario che quota tra 160 e 230 mila i ruoli qualificati potenzialmente scoperti nei prossimi cinque anni, smentisce una serie di luoghi comuni largamente diffusi nel Paese: la laurea serve a poco. Non garantisce un lavoro o un reddito decente. All’Italia servono più falegnami e idraulici, meno studenti di economia e discipline sociali (e figuriamoci di filosofia). È un filone di pensiero che nel lunghissimo tunnel della crisi si è fatto pervasivo, anche attraverso i giudizi di imprenditori italiani e internazionali di gran successo mediatico. Da Fulvio Briatore a Elon Musk, la critica alla formazione universitaria è stata il perno di molti ragionamenti sul tardivo ingresso dei ragazzi nel mondo della produzione, insieme all’esaltazione di percorsi più semplici e immediati finalizzati al lavoro manuale. Ma non solo: serie cinematografiche popolarissime come «Smetto quando voglio», con la sua galleria di latinisti e biochimici ridotti a fare i benzinai o gli sfasciacarrozze, hanno incardinato nell’immaginario collettivo l’idea della laurea come inutile impegno, o peggio aspirazione da perdenti. Ora i dati ci dicono l’esatto contrario: non abbiamo troppi laureati, ne abbiamo troppo pochi. Il polmone dello sviluppo, cioè chi studia, inventa, coltiva competenze e ambizioni, è in affanno e rischia di smettere di respirare senza un cambio di direzione. Il calo delle immatricolazioni registrato dal 2017 fa prevedere un rapido ed enorme scostamento tra domanda e offerta non solo nei celebrati settori dell’area economico-statistica ma anche nel bistrattato comparto umanistico: insegnanti, laureati in letteratura, lingue, scienze motorie. Ci serviranno architetti, medici, geologi, a migliaia, e non li avremo. Ci serviranno medici e odontoiatri: dovremo cercarli altrove. Ci serviranno persino 71 mila laureati in Giurisprudenza, la facoltà spesso definita come la più affollata e professionalmente improduttiva. Non troveremo neanche loro. Oltre ogni ragionamento tecnico sull’insufficienza del nostro sistema universitario, sui suoi costi, sul disinteresse per chi abbandona, sul numero chiuso che porta all’estero migliaia di diciottenni, è chiaro che serve un’inversione di tendenza culturale. L’Italia deve recuperare l’idea che lo studio universitario costituisca un’ambizione da incoraggiare, che valga la pena per le famiglie e i ragazzi investire in quella direzione tempo e denaro. Che la fatica sui libri vada socialmente sostenuta perché, come diceva Antonio Gramsci, è già «un mestiere e un tirocinio»: non una perdita di tempo. Lo scetticismo sull’importanza di «fare l’università» ha accomunato negli ultimi tempi sia la destra sia la sinistra, come dimostrano le molte e infelici citazioni sull’inutilità dei curriculum («Meglio giocare a calcetto»), sulla futilità degli sforzi per raggiungere il 110 agli esami, sulla cultura che non si mangia o sulla superiore furbizia di chi a sedici anni sceglie il professionale ammettendo che alla laurea forse non arriverà mai. Ecco, magari anche in politica sarebbe il momento di cambiare narrazione, alimentando nei nostri figli sogni e autostima anziché depressione e sfiducia. Fra l’altro, la svalutazione dell’importanza degli studi universitari non ha portato a un significativo aumento della propensione a scegliere i celebrati lavori manuali. Non abbiamo più falegnami o idraulici, ma il triste record europeo dei Neet, i giovani che non studiano e non lavorano: qualcosa di sbagliato deve esserci per forza, è ora di occuparsene.