Francesca Paci

Cosa accada in Egitto è quantomai materia da sfinge. Alcune centinaia di persone sono effettivamente scese in strada ieri al Cairo, Alessandria, Suez, rispondendo all’appello del nuovo eroe popolare Mohamed Ali, l’imprenditore ed ex contractor dell’esercito che da un mese arringa i connazionali via YouTube denunciando la corruzione della presidenza e le ville costruite a spese dei contribuenti. Ma, nonostante la rabbia montata senza precedenti e la visualizzazione del j’accuse a livelli da video porno, il vento del 2011 non si è risvegliato. E non solo perché sin dal mattino l’iconica piazza Tahrir schierava più poliziotti che manifestanti mentre la sicurezza, per una volta in sintonia con le associazioni dei diritti umani, lasciava aleggiare la cifra record di 2 mila persone arrestate in poche ore, tra cui il professore anti-islamista Hassan Nafea. Gli egiziani sono depressi e non ne fanno mistero. Le umane sorti e progressive vagheggiate otto anni fa con la prima rivoluzione contro Mubarak e poi con la seconda contro il democraticamente eletto Morsi non si sono materializzate. Lo stato di diritto può attendere, si disse allora, accantonando la libertà nel nome della sicurezza, della ripresa e della fiducia nel presidente al Sisi. Qualcosa è andato storto però, e i giovani chiedono oggi ai fratelli maggiori il conto di quel sacrificio. Il Paese in realtà cresce del 5,4%, una tigre africana. Analisti liberal come Said Sadeq ammettono che al Sisi ha avviato quelle riforme economiche non più rinviabili e, grazie alla scoperta del giacimento di Zohr, ha smesso di importare gas assicurandosi energia gratis per tanti anni a venire. Il turismo non ha recuperato i livelli del 2010 ma sono tornati i russi, gli italiani, i resort sulla costa alessandrina sono sempre pieni di stranieri ed egiziani facoltosi. Eppure l’umore nazionale è sotto i piedi. Talmente tanto che il presidente ha sentito di dover rispondere all’invettiva di uno come Mohamed Ali: non un dissidente e neppure, come insinuato, un Fratello Musulmano, ma un ex insider in Ferrari che con un gergo comprensibile all’ultimo degli egiziani si vendica per non essere stato pagato dall’esercito. Il punto è che nonostante i successi macroeconomici il Paese, disposto a soffrire la censura, soffre anche la fame. L’aiuto del Fondo Monetario Internazionale ha imposto il taglio drastico dei sussidi su cui, malamente, campava un Paese enorme e con una media di 6 figli a famiglia. Secondo la Banca Mondiale il 33% della popolazione vive oggi sotto la soglia di povertà mentre un altro 33% è prossimo a finirci. Vuol dire che quel 30% di tasse raccolte ai tempi di Mubarak e passate oggi all’80% non basta o non è redistribuito. I cantieri sono ovunque, strade, il recupero di baraccopoli centralissime come Batn El Bakara, nuove capitali con appartamenti da 15 mila pound egiziani al mq (una famiglia media ne guadagna meno di 1000 al mese). Si vola, ma molto più in alto della vita comune, dove la benzina e il gas da cucina sfiorano prezzi folli. Resta la rivoluzione, ma serve un consenso ampio. E giacché le donne e i copti fanno quadrato intorno al presidente, toccherebbe agli ex ragazzi del 2011 prenderne le redini. Ci hanno pensato in queste ore: ma la paura di finire di nuovo nella trappola islamista e quella simmetrica di essere usati dal regime per un regolamento di conti interno li hanno paralizzati. La rabbia, specie quella sanculotta, è lì: da maneggiare con cura.