Si fa presto a dire colmiamo il gap di laureati di cui l’Italia avrà sempre più bisogno. Perché poi servono i soldi. E di questi tempi non si sciala davvero. Basta leggere tra le righe delle dichiarazioni del ministro dell’economia Roberto Gualtieri, che intervistato in televisione da Lucia Annunziata ammette una «revisione della spesa» senza «tagli a scuola, sanità, università», per capire che il settore educazione potrà considerarsi fortunato se uscirà a reti inviolate da una manovra finanziaria obbligata a raggranellare risorse da ogni dove. La scuola e l’università non riceveranno fondi freschi dunque, ma dovrebbero almeno evitare ulteriori sforbiciamenti. «Non ce lo possiamo permettere, sarebbe controproducente» insiste Gualtieri riferendosi a eventuali non auspicabili riduzioni di spesa in un contesto già molto sofferente, come ulteriormente evidenziato dal rapporto di Unioncamere (in 10 anni l’intero comparto ha perso circa 9 miliardi di euro). Il problema sta nelle aspettative. La speranza del mondo della scuola non era infatti solo quella di tenere botta ma di rilanciare. Tanto che in più di un’occasione il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti aveva chiesto 3 miliardi d’investimento per il Miur (anche proponendo misure creative come la famosa tassa sulle merendine e minacciando clamorose dimissioni), una cifra lunare con la finanziaria prossima ventura chiamata a trovare 23 miliardi per bloccare l’aumento dell’Iva e altri 7 per interventi di vario genere. Ogni anno, a ridosso della ripresa delle lezioni, il tema della scuola si ripropone con la medesima urgenza. Nel 2018 l’allora ministro Bussetti promise 100 milioni di euro (briciole, comunque) salvo dover rinviare il tutto al biennio successivo. Bisognerebbe puntare in alto, recuperare la fuga dei cervelli all’estero che ogni anno costa all’Italia 14 miliardi di euro (quasi un punto di Pil), riprendere in mano le redini della ricerca scientifica i cui investimenti pubblici sono stati ridimensionati del 21% in 10 anni (più un taglio del 14% alle università statali), bisognerebbe innervare la scuola di forze nuove e motivate (ben oltre le 24 mila assunzioni straordinarie sbloccate appena pochi giorni fa). Non è facile però, fare le nozze con i fichi. E con le poche risorse disponibili c’è da assicurare l’essenziale, i docenti sì (condannati a una guerra al ribasso tra poveri), ma anche la messa in sicurezza degli edifici scolastici. Il XVII Rapporto Impararesicuri, pubblicato un paio di settimane fa da CittadinanzAttiva, denuncia una situazione allarmante, con ben 70 crolli di edifici avvenuti solo nel corso dello scorso anno e il 58% delle scuole non a norma in materia di sicurezza e agibilità (dati Miur). Dita incrociate, insomma, contando se non sulla generosità almeno sulla clemenza (in teoria sarebbe previsto anche un piccolo aumento di spesa per la ricerca). C’è però chi fa notare che, nonostante i buoni propositi del nuovo governo giallo-rosso, i tagli potrebbero non essere ancora scongiurati. Il sospetto viene dalla recente nota di aggiornamento al DEF (Documento di Economia e Finanza), dove la quota del Pil da destinare alla scuola avrebbe perso lo 0,1% passando dal 3,5% al 3,4%, uno zero virgola che vale comunque 1,8 miliardi di euro (sulla carta, causa le variazioni demografiche, nel 2035 si arriverebbe addirittura al 3%): non esattamente un rilancio.