Francesco Erbani

Occorre tornare a Marx, non al Marx politico, ma al Marx osservatore e analista acuto della società capitalistica. È questa la strada che deve percorrere una sinistra riformista. Può drasticamente sintetizzarsi così il senso di Un altro Marx. Lo scienziato liberato dall’utopia, il saggio che Guido Carandini pubblicò nel 2006 da Laterza e che suscitò non poco clamore a sinistra. Storico dell’economia, docente universitario, imprenditore agricolo, parlamentare del Pci fra il 1976 e il 1982, candidato con il centrosinistra nel 2001, Carandini si è spento ieri. Intellettuale poliedrico, conversatore raffinato, a giugno aveva compiuto novant’anni. Il ritorno al Marx scienziato non era un auspicio estemporaneo. Carandini intendeva rimettere al centro del dibattito un pensiero che si voleva travolto dalla dissoluzione degli ideali comunisti e dell’Urss, ma che invece rifioriva per le sue capacità di interpretare anche il mondo contemporaneo. Un pensiero liberato dagli esiti politici, disastrosi e autoritari, realizzati nel corso del Novecento. Detto in altri termini: buttata l’acqua sporca, restava integro e sano il bambino. Inoltre quello di Carandini era il prodotto di una riflessione di lungo periodo che lo aveva portato, per esempio, a schierarsi nel 1985, con un articolo rimasto celebre pubblicato a tutta pagina su Repubblica, a favore del cambio di nome da parte del Pci, quattro anni prima che lo decidesse Achille Occhetto. Carandini, che nel 1982 si era dimesso da parlamentare in anticipo sulla scadenza del mandato, invocava «un esercizio di fantasia», chiedeva che un congresso «superstraordinario» decretasse la fine dell’eurocomunismo e avviasse la riunificazione «delle sparse forze della sinistra italiana» in un «partito democratico del lavoro». Carandini approdava al Pci, come altri alla metà degli anni Settanta, provenendo dalla più schietta tradizione liberale italiana. E questo non è un dettaglio secondario per comprendere il profilo della sua militanza a sinistra. Era il primo figlio del conte Nicolò Carandini, figura di assoluto spicco dell’antifascismo liberale, poi ministro del governo Bonomi, quindi ambasciatore a Londra. Legatissimo a Benedetto Croce, Nicolò Carandini aveva sposato Elena Albertini, la figlia di Luigi, direttore del Corriere della Sera fino al 1925, quando fu estromesso dal fascismo. Con il fratello della moglie, Leonardo, Nicolò Carandini prese a occuparsi della grande azienda agricola di Torrimpietra, acquistata da Luigi Albertini e dove il giornalista si era ritirato. Torrimpietra è poco fuori Roma, non distante dal mare e dalla grande tenuta di Maccarese. Originariamente aveva un’estensione di 1.500 ettari. Carandini si preoccupò di completarne la bonifica — paludosa e malsana era tutta quella zona — e di introdurvi tecniche agricole assai avanzate, in particolare per l’allevamento del bestiame. Contemporaneamente era attivo sul fronte politico, prima nel Partito liberale (e come esponente del Pli era stato membro del Cln, subito dopo l’8 settembre), poi, quando alla guida di quella formazione venne eletto Giovanni Malagodi, fu tra gli artefici del Partito radicale (con lui, fra gli altri, Eugenio Scalfari, Leo Valiani e Bruno Villabruna). La formazione di Guido Carandini è dentro questo ambiente politico-culturale, l’ambiente liberale che guarda a sinistra, non rinunciando però ai pilastri di una società di mercato. E non si può dimenticare l’esperienza di Il Mondo, diretto da Mario Pannunzio, del quale Nicolò Carandini era collaboratore e sostenitore. Accanto all’attività di docente, di saggista e di militante, di opinionista sulle colonne di Repubblica, Guido Carandini (il cui fratello minore è l’archeologo Andrea) ha svolto quella di imprenditore agricolo. Anzi, ha cominciato come imprenditore agricolo e tale è rimasto lungo l’intera vita. A 22 anni, mentre si laureava in giurisprudenza, era già impegnato a lavorare con suo padre e a sperimentare nuove procedure, i cui modelli apprendeva viaggiando in Europa e negli Stati Uniti. Ereditata una porzione dell’azienda, Carandini ha messo in piedi una delle più moderne aziende zootecniche. «Si può dire», affermava con signorile e garbato orgoglio, «che la moderna zootecnia italiana sia nata a Torrimpietra». Carandini non ha mai smesso di aggiornare le pratiche zootecniche, ha frequentato i laboratori della Cornell University di Ithaca, negli Usa, e si è tenuto in contatto con allevatori di diverse aree del mondo. È stato anche critico nei confronti delle politiche agricole italiane ed europee. Fra il 1996 e il 1997 era alla testa della protesta degli allevatori contro le multe comminate ai produttori di latte, accusati di aver sforato le quote fissate dall’Unione europea. Partecipò alle manifestazioni, ai blocchi stradali sulla via Aurelia. In molti lo ricordano aggirarsi fra i trattori con un cappello a larghe falde e un megafono. Comunque riuscì a spiegare all’allora premier Romano Prodi che il problema non erano le quote, ma il modo in cui l’Italia non aveva battuto ciglio in sede europea, accettando di diventare importatore di latte prodotto altrove. Aveva anche dimostrato quanto errata fosse l’applicazione di quelle norme. Lo definirono “il conte rosso”. Ma lui replicava: nessuno della nostra generazione di Carandini ha mai fatto sfoggio di titoli nobiliari.