Francesco La Licata

Il dibattito innescato dalla sentenza della Cassazione sulla cosiddetta «mafia a Roma» – che nega al consorzio criminale di Buzzi e Carminati i requisiti di una vera e propria Cosa nostra – sembra aver riaperto una di quelle «annose questioni» che credevamo archiviate dopo il maxiprocesso di Palermo e dopo le numerose inchieste seguite alle stragi in Sicilia (1992) e nel Continente (1993). L’apporto tecnico-giudiziario fornito alla cultura dell’Antimafia da Falcone, da Borsellino e dal pool antimafia, infatti, sembrava aver colmato quel gap secolare della magistratura, che aveva contribuito a rendere la mafia una organizzazione potente e impunita. Sembrava tramontato il tempo in cui i magistrati, specialmente quelli della Corte Suprema, esercitavano il loro giudizio basandosi esclusivamente sulle carte asettiche, tenendosi a debita distanza dal «contesto» (soprattutto sociale e ambientale) che caratterizzava le vicende mafiose. Quasi scontato, dunque, che risultassero meno comprensibili a Roma, comportamenti e fatti che ai magistrati impegnati nel territorio dove avvenivano sembravano chiari e persino provati. Consequenziali, perciò, le numerose assoluzioni in Cassazione che stravolgevano i primi gradi di giudizio. Insomma, la mafia è un fenomeno difficile da capire per chi non l’ha affrontata e studiata, fino ad assimilarne le misure di contrasto più idonee quasi come un vaccino. E a Roma, prima del processo a Buzzi e Carminati, la mafia veniva vissuta come un fenomeno lontano e irripetibile fuori dal suo territorio. Ieri, sulla Stampa, il presidente del Tribunale della Città del Vaticano, Giuseppe Pignatone (fino a poco tempo fa capo della Procura di Roma e titolare del processo sul «mondo di mezzo»), ha provato a chiarire proprio questo semplice concetto: Roma non è mafiosa ma è un territorio dove agiscono più consorterie mafiose, ciascuna con le proprie attitudini e caratteristiche. Quella di Buzzi e Carminati è una mafia invasiva nei confronti della pubblica amministrazione e quindi tendente ad affermare una supremazia della corruzione. Certo, non è la Cosa nostra siciliana, col suo preponderante controllo capillare del territorio, ma è un sistema, come altri nella Capitale, che si afferma col metodo della violenza e della intimidazione. «Basta chiedere – ha scritto Pignatone – agli abitanti di Ostia o delle altre zone della Capitale o del Lazio che ne subiscono la forza intimidatrice». Proprio la capacità di determinare assoggettamento e omertà con l’intimidazione e la violenza è una delle «qualità» proprie del sistema mafioso. E il non frequentissimo ricorso alla violenza (pochi omicidi, poco rumore di armi da fuoco) non sempre è sintomo di assenza mafiosa: una telefonata di Carminati che dice «ti conosco e so dove abiti» può aver l’effetto di una pistola puntata alla testa. Persino in Sicilia il ricorso alla violenza veniva accettato come «estrema ratio» e non come abitudine naturale. I siciliani sono stati spesso tacciati di omertà per aver taciuto perché intimiditi da minacce o solamente da uno sguardo eloquente. Ma questo è il potere del mafioso. C’è un aneddoto, raccontato da Andrea Camilleri, che spiega bene cos’è un uomo d’onore. Lo scrittore incontra casualmente un boss italo-americano e gli chiede di spiegargli cosa fosse mai un mafioso. Il boss gli risponde con un esempio: «Se ora entra uno armato di pistola e ci impone di inginocchiarci, noi non abbiamo scelta e dobbiamo ubbidire. Ma quello non è un mafioso è solo un delinquente. Se, invece, entra un tranquillo signore disarmato e noi due ci inginocchiamo e gli baciamo la mano, abbiamo incontrato un vero mafioso». Esattamente come spiegava Michele Greco al maxiprocesso: «Signor presidente, la violenza non fa parte della mia tradizione».