Francesco Merlo

Ha pronunciato la più pericolosa parola di sinistra, «riforme», che in Italia sono impossibili e hanno bruciato vite e carriere, da Aldo Moro sino a Matteo Renzi. E ha citato Giuseppe Saragat che, diciamo la verità, con Giuseppe Conte aveva in comune solo l’acqua di colonia che permise ai tedeschi di trovarlo e arrestarlo, nella casa in cui si nascondeva, seguendone la scia per le scale. Conte si appropria invece del «volto umano della democrazia» e convoca Saragat al capezzale del proprio virtuoso trasformismo che anche ieri ha continuato a chiamare «il mio nuovo umanesimo». Saragat era, secondo Nitti, «uno dei due italiani che hanno letto tutto Marx». Ma dei due neppure l’altro somigliava al professor Conte perché era Nitti stesso.
E dunque il giorno della Fiducia è stato anche il giorno della resurrezione del riformismo. Non solo il giorno della Camera assediata dalla destra che entrava e usciva dall’aula, si caricava di aggressività fuori e la scaricava dentro, e poi al contrario si scaricava in piazza e si caricava in aula, con tricolori e saluti romani. E la poltrona, che fuori era sollevata e sventolata come una bandiera, dentro era il grido di battaglia, la metafora, “l’oggetto emblematico” di Montale, non un argomento ma un’immagine evocativa, “il linguaggio senza parole” della cultura di destra spiegato da Furio Jesi (“Cultura di destra”, Nottetempo, è il libro da rileggere).
Ma bisogna dire la verità: non c’è stata quella violenza da angiporto, con scene da parlamento libico o balcanico, che tante volte abbiamo visto, anche nella storia recente. Solo rumore e strepito dove i più sguaiati erano quelli di Fratelli d’Italia che oggi però non sono stati maneschi, e dunque sono stati migliori della loro storia e della loro antropologia.
E ai tumulti ci si è arrivati a poco a poco. Di mattina era come se agli esami di maturità avessero assegnato come tema: “Scrivete un discorso di sinistra”. Giuseppe Conte lo leggeva e dominava l’aula con la voce bassa, monocorde, cortese, che per quasi un’ora e mezza è sembrata parlare da sola, come una radio, come un bollettino di servizio, come Alfred, il maggiordomo di Batman che gli prepara i costumi e lo aiuta ad attrezzare la grande caverna sotterranea.
Come sarà la crescita? «Sostenibile ». E com’è l‘opportunità? «Storica ». Il piano per il Sud? «Straordinario ». Il progetto? «Ambizioso». E il lavoro? «Al primo posto». Poi gli asili nido gratis, i disoccupati, un sottosegretario per i disabili, la parità di genere, le famiglie numerose, una conferenza sull’Europa, una banca di investimenti per il Sud, le diseguaglianze economiche… E “in quota Renzi” c’era pure l’Inglesorum dell’Italia «smart nation » e l’ambientalismo come «green new deal». E qui Celentano avrebbe aggiunto uno dei suoi magistrali colpi di “all right”.
E però la sinistra, che pure è lealmente e appassionatamente schierata con il governo, “sente” che Conte è un surrogato: Bersani più che applaudire muove le mani. «È un nuovo inizio» dice, ma il caffè è decaffeinato, il latto è magro, la cintura è di similpelle, il premier è di similsinistra. E neppure oggi Conte ha fatto un cenno di autocritica; la colpa degli eccessi legislativi sulla sicurezza, ha ripetuto, è solo di Salvini. Ha rimosso se stesso e le proprie gravi responsabilità dalla violenza contro gli immigrati durante la vicenda della nave Diciotti. Maurizio Martina ci guarda negli occhi e commenta «ottimo discorso », ma con il tono “alla dioboia” come dicono a Livorno. Fratoianni aggiunge che «con la sinistra Conte si impappina quando le cose si fanno difficili: gli immigrati e la riforma elettorale combinata con il taglio del numero dei parlamentari, per esempio; ma certo il suo discorso è condivisibile». Di sicuro le riforme oggi sono quanto più a sinistra si possa immaginare in un paese le cui febbri di crescita si sono sempre espresse con gli spasmi sociali: dalla boje emiliana ai fasci siciliani, dai tumulti milanesi repressi da Bava Beccaris al maggio radioso del 1915, dall’occupazione delle fabbriche del primo dopoguerra ai riots fascisti, dalle lotte agrarie del secondo dopoguerra ai morti del governo Tambroni, dal boia chi molla di Reggio Calabria a Valle Giulia, senza dimenticare brigate rosse, brigare nere e stragi, e poi la Lega e Mani pulite, i referendum per il maggioritario, la giustizia ad personam, la rottamazione di Renzi e il vaffa di Grillo.
E però il presidente, prima della replica, non scaldava neppure la creatività dell’opposizione, che infatti non era andata oltre i ritornelli automatici «pol-tro-ne-pol-tro-ne», «bi-bbia-no- bi-bbia-no».
Allo stesso modo non eccitava la fantasia della sua maggioranza che applaudiva di lode quando quelli della destra applaudivano di scherno, e così era tutto un applaudire stanco: «bravo» gridavano a destra mimando la pernacchia, e «bravo» rispondevano a sinistra mimando l’osanna.
Solo quando il dibattito si è scaldato e i leghisti gli hanno dato del traditore, del venduto, dell’imbullonato alla poltrona, finalmente Conte si è mostrato offeso: «È il M5S ad avere subito il tradimento ». Ha citato Hannah Arendt, ha elogiato la coerenza ai programmi e non agli interessi elettorali del proprio partito, ha detto che Pd e 5stelle sono stati coraggiosi a superare gli aspri contrasti e a fare maggioranza negli interessi del Paese. Ha replicato e ha persino provocato, ma senza mai parlare di sé, senza mai guardare dentro di sé.
E forse Conte sembra davvero “bravo”, per quel che valgono i sondaggi, proprio perché la storia oggi non la fanno i grandi uomini con i grandi discorsi, ma le formichine che rianimano le ombre del passato che gli italiani spaventati stanno inseguendo: Prodi, il centro moderato, anche nella versione centro-destra, e poi lo stile morbido e solenne della Dc, la forza calma del Pci, il socialismo liberale, Berlusconi persino. Ecco: Giuseppe Conte sarebbe andato bene con ciascuno di loro.
Zitti e disciplinati, i ministri oggi gli stavano accanto come i calciatori al loro Mister, anche Teresa Bellanova in sobrio floreale, Paola Pisano in rosso comunista e la prefetta Lamorgese a braccia conserte, un po’ stanca del paragone con Salvini: «Non sono qui per farlo dimenticare, ma forse perché sono esperta in situazione delicate ».
Anche oggi Conte ha provato a incarnare la voglia di normalità degli italiani che sono stanchi degli arruffapopolo, del divismo, del linguaggio crudo, degli aggettivi forti e della richiesta dei pieni poteri ma anche delle signore invadenti ed esagerate e dei conflitti di interesse, sesso e banche. E ieri Conte era sicuramente sincero quando prometteva che la lingua del governo «sarà rispettosa». Ha fatto l’elogio della sobrietà, e ha ripetuto, tra gli insulti, che «non ci saranno più insulti».
E benché si sia guardato bene dal parlarne, tutti hanno pensato che, anche nella vita privata, Conte non esibisce diavolesse su Instagram né fidanzate con gli stivaletti rossi. Solo la pochette a quattro punte. Chi mai avrebbe immaginato che come la gobba di Andreotti e i baffi di D’Alema una pochette diventasse il nuovo simbolo della ripetizione e dell’immutabilità italiane.