Francesco Merlo

È la prima scissione allegra, goliardica nella lunga storia della sinistra che è storia di guerre civili e singhiozzi, di lacrime e coltelli: “Renzi se ne gghiuto e soli ci ha lasciato”. Franceschini ha mandato ai transfughi un WhatsApp – «ecco come andrà a finire» – con l’immagine del simbolo dimenticato di un’altra brutta scissione nel 2009 che andò male, quella di Rutelli che fondò l’ApI: una margherita e due api. E Cuperlo canticchia un vecchio e sgrammaticato Celentano: «Ancora una volta ho rimasto solo». Nella sede del Nazareno, che è stato uno dei simboli della modernità renziana ma anche il sinonimo dell’ inciucio e del pastrocchio, non solo non c’è l’aria cupa del “pugno ergo sum” e la forza selvaggia contro il tradimento di famiglia, mortale o vitale che sia. C’è, al contrario, l’aria frizzantina, e nessuno sembra avere il cuore stretto pensando ai disperati speranzosi che se sono andati, a quegli irriducibili renziani alla ricerca di rinascite epocali. Al Nazareno già al mattino conoscevano il nome del partito di Renzi: «Sarà Italia Viva». Ed è un altro motivo di goliardia, ma coperta «per carità», perché pesca, dicono, «nel sound berlusconiano più che in quello della sinistra, e senza l’ironia dello stadio e del tifo che c’era in Forza Italia». E forse perché non ci sono misteri da decifrare, oggi il Nazareno non è un bunker assediato neppure da noi giornalisti che non facciamo folla e non abbiamo la solita bulimia famelica quando, accaldati dal sole romano, corriamo incontro a Del Rio, a Martina, alla De Micheli, a Cuperlo, a Debora Serracchiani… Arrivano come in processione, non c’è nessuna Roma che li aspetta, non ci sono bandiere contese, ma solo la bassa marea di un divorzio senza pathos. Quasi tutti però sono stati renziani entusiasti dall’obbedienza pronta, cieca e assoluta. E magari ha ragione Luigi Zanda: «Non esistono scissioni gioiose, ma solo scissioni sanguinose, e perciò se qualcuno esibisce l’allegria è solo per difendersi». Come Mangiafuoco che, imbarazzato dalla propria sensibilità, starnutisce per non piangere: «Etcì, etcì, etcì. Tu sei un gran bravo ragazzo! Vieni qua da me e dammi un bacio». Nel grande salone del Nazareno provo a chiedere a questi dirigenti spiritosi chi è l’uomo che ha lasciato il partito. Alien? L’intruso? Il rottamatore? Fonzie? Il segretario che ha portato il Pd al record storico del 41 per cento? Il leader bastonato ma indomabile? E a tutti tornano in mente gli sbadigli annoiati dell’altra scissione, quella di D’Alema e di Bersani che uscirono dal partito e ne fondarono un altro,dicendo e ripetendo che sarebbero tornati «solo quando non ci sarà più Renzi». Il gladiatore D’Alema, con una delle sue famose profezie da ludopatico della rissa, aggiunse che «qui di Renzi non resterà neanche la puzza». Ora Bersani, inseguito per strada, è frastornato in mezzo ai giornalisti che gli si stringono a semicerchio, ma non riesce a fare la faccia tagliente, spigolosa e forte del “tié”. Si vede che è contento e che vorrebbe tornare nel Pd di nuovo suo: «Non ho mai creduto ai partiti personali» ripete. Chiamo allora al telefono Marco Minniti che è in Calabria e si limita a dirmi che «però non è divertente che nei 12 anni di vita del Pd, ben tre dei quattro segretari che abbiamo eletto con le primarie abbiano rotto traumaticamente con il partito: Veltroni si dimise, Bersani e Renzi hanno fatto le loro scissioni. Rimane Zingaretti». Sono dunque sopravvissuti solo i segretari traghettatori, i non eletti, i re senza terra e senza popolo, i burocrati sempre fuori posto e sempre provvisori, gli eternamenti quasi leader: Franceschini, Epifani e Martina. Oggi nello strano umore di sollievo nero del Pd c’è anche questa malinconia delle primarie, il fallimento di un’idea di democrazia importata d’ Oltreoceano. E davvero l’austerità del tempo andato ha definitivamente battuto la sfrontatezza del tempo nuovo? E che fine ha fatto quella moderna rivisitazione del rapporto tra impresa e lavoro? Zingaretti, che è diventato il riferimento di famiglia per la faccia e per le parole che dice, passa in mezzo ai giornalisti sorridente, cortese e muto. Si chiude nella sua stanza e scrive sui social che «è stato un errore». Ma in privato aggiunge: «Se c’è chi spera che io gridi al tradimento non ha capito nulla di noi». Zingaretti non crede nell’aria equivoca che aleggia sui fedelissimi renziani, nel sospetto di quinta colonna, nell’entrismo che Renzi però avrebbe capovolto perché, per la prima volta, sarebbe praticato non da chi è entrato nel partito del nemico, ma da chi non è uscito dal proprio. Faranno il doppio gioco i vari Marcucci, Nardella, Bonafé, Lotti, Guerini… che a sorpresa sono rimasti nel Pd? «Per qualcuno l’Italia è tutta un tradimento, ma non per me». Al segretario portano i dati, la scissione sembra dappertutto modesta, «in tv ho sentito che è un terremoto, ma non ci sono scosse»; non c’è un solo sindaco, neppure quello di Rignano, gli riferiscono. E ovviamente nessuno ha occupato le sezioni storiche, la Garbatella o via dei Giubbonari, come succedeva ad ogni scissione quando addirittura c’erano mogli che lasciavano i mariti perché ristrutturavano radicalmente le biblioteche di casa e si facevano contagiare dai liberali che governavano la mutazione comunista scompigliando gli scaffali: Hannah Arendt al posto di Stato e rivoluzione, via Marcuse e dentro Popper, via le opere complete di Togliatti e dentro la Storia dei Papi. Ci vado per dovere, anche se so che è un rito morto, e intercetto, per l’ennesima volta, la stanchezza di un popolo infiacchito, la stessa delle feste dell’Unità. Mi portano dal compagno Palmiro, 77 anni. Nelle mani ha la copia di Repubblica fitta fitta di sottolineature , scuote la testa e cita la vecchia frase che ieri è stata rilanciata da Orfini: «Extra ecclesia nulla salus». Poi dice che «anche Renzi è stato un leader politico di prima fila, nonostante i molti errori compiuti». E si accende solo quando gli parlo di Salvini: «Contro di lui ci ritroveremo tutti insieme» dice. Anche con Renzi e D’Alema, anche con Bersani e Maria Elena Boschi? «Noi del Pd saremo Biancaneve, e loro i sette nani».