Francesco Merlo

Belli, belli, sono belli i nostri figli senza bandiere, belli e presuntuosi, belli e saputi, belli senza cattiveria, belli senza violenza, tanto belli che oggi a Roma anche la piazza non è più la piazza dove “si scende”, la piazza dello scontro, la piazza-tribunale del popolo, la piazza-plotone della demagogia. Oggi, in piazza della Repubblica, il Friday for future sembra realizzare invece, quasi settant’anni dopo, il magico raduno immaginato da Salinger nel 1951, quello dei giovani Holden, degli adolescenti del disagio: «Mi immagino sempre tutti questi ragazzi che fanno una partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande voglio dire…». Gianfranco Mascia e gli altri organizzatori dicono che nei campi di segale di tutta Italia si sono radunati più di un milione di giovani Holden, che non è un numero verificabile, ma è la giusta definizione filosofica dell’abbondanza, il tao, il flusso, la potenza, la quantità che paralizza. E a Roma erano duecentomila. E però, tra loro, qui ci sono mamme e nonne che fotografano figlie e figli adolescenti e, via WhatsApp, mandano le immagini ai papà e ai parenti. Se le avvicini cominciano con «anche io nel 77» oppure, addirittura, «noi nel 68», pronte a lucidare ricordi senza più denti e senza più artigli. Ma in questo nuovo romanzo di formazione non c’è (ancora?) posto per quel vecchio rancore ideologico. L’ utopia rimane la stessa, quella del mondo al contrario, ma con la simpatia e non più con il ghigno, con il sorriso e non con l’odio. Il coro canta Il cielo è sempre più blu di Rino Gaetano. Nella colonna sonora c’è, come sempre, Bella ciao. E ogni tanto parte forte un applauso e allora tutti applaudono senza sapere chi e perché. Planet before profit, l’isola di plastica in mezzo all’oceano, la Great Pacific Garbage Patch, l’Amazzonia, il caldo che fa scappare i pinguini… sono le nuove superbe turbolenze che hanno sostituito “la rivolta degli studenti” che si ripeteva sempre uguale, con i vecchi instupiditi che riproponevano, anno dopo anno, un nuovo sessantotto. Anche questo ha fatto Greta, ha trasformato quella inutile e qualche volta violenta “rivolta degli studenti” nella reliquie di un mondo perduto. I ragazzi ne hanno parlato con gli insegnanti e con i presidi dei loro licei, a cominciare da Carlo Firmani del Socrate che, prima ancora del ministro Lorenzo Fioramonti, aveva benedetto la manifestazione e giustificato l’assenza. «Vi hanno tolto il nemico?» chiedo. Mi raccontano che, per preparare la manifestazione, a scuola hanno fatto il debate, che sta insidiando la centralità dell’assemblea. Si dividono in due squadre e si affrontano come in tribunale, con arringa e requisitoria finale. Sotto accusa c’era la leadership di Greta: è giusto che ci sia una leader mondiale così carismatica o è troppo pericoloso? In un angolo ci guardiamo insieme il video del debate: la scuola è scholé, tempo libero, otium, e dunque il tempo della libertà e anche delle manifestazioni: «Nessuno ha tolto il nemico a nessuno, ma la manifestazione, che era un rito inevitabile e stanco, è ora una specie di lezione, è materia didattica, è programma scolastico. La manifestazione diventa scuola all’aperto». I ragazzi non sono arrivati tutti in una volta, ma a gruppetti, a drappelli, a ciuffi, fischiettando con le mani in tasca…, ciascuno con un proprio cartellino di cartone, “Lend a hand to save the land”, una frase sul global warming, il solito aforisma sull’assenza di un Planet B, un pensiero per acchiappare il mondo dalla coda: “Che manifestate a fare, se non siete vegani!”. E mentre piazza della Repubblica si infuoca di sole quelli con il cartello “Eat less meat” si cercano con quelli di “Vacce te su Marte”, e tutti si perdono e si ritrovano perché ci si smarrisce facilmente nella folla: «Scusa, dov’è santa Maria degli Angeli?». «Quella di Michelangelo?». Poi, però, davanti all’architettura minimalista che Stendhal definì «sublime» inaspettatamente si confrontano con i compagni di Lotta comunista che fiutano il vento, propongono il giornale con la falce e il martello e lo striscione rosso contro “la mercificazione della natura”; la proposta è: “Riconvertire l’economia”. Sembra l’angolo dell’antiquariato a paragone di quel “Make love not CO2”, per non dire di quell’altro un po’ folle e però così romano: “Se non facciamo qualcosa, il Pianeta non produrrà più geni come Totti. Auguri capitano”. Nei cartelli ci sono troppi rimandi sessuali, forse perché è l’età dei brufoli o forse perché va di moda anche in tv. Mi avvicino ad un gruppetto che inalbera “Destroy the pussy, not the planet”. Chiedo spiegazioni per quel destroy: «In senso erotico» mi dicono. Ma forse è Roma ad eccitare i sensi: “Salviamo il pianeta perché e pieno di gnocca”. Una ragazza piccolina, pulita, con gli occhiali di metallo inalbera un improbabile: “The Seasons are more regular than my period”. Di sicuro c’è, finalmente, un uso appropriato dell’inglese che davvero colpisce nel paese dove la tradizione maccheronico-goliardica è ben più antica di Renzi e di Di Maio: “The planet is getting hotter than my boyfriend”. Lancio un dibattito sull’inglese, «è la lingua che usa Greta», «nel mondo globalizzato chi non parla inglese è un analfabeta», «è la lingua della scienza». Ma che c’entra la scienza con “Don’t fuck your Mother Earth”? Chiedo allora di spiegare in inglese perché Greta ha ragione: «Because she induces nasty comments». Non è dunque vero che questi ragazzi non hanno nemici. I loro nemici sono i nemici di Greta. «Oggi insultano l’ingenuità delle nostre manifestazioni, negli anni scorsi ne insultavano la sapienza». Quando il corteo passa di fianco al Colosseo, che è il luogo del colossale, del globale, il punto dove tempo e spazio si fondono, si vede il senso della manifestazione come insegnamento, come educazione, con il sottosopra dei figli che diventano maestri dei propri padri, come già è accaduto con gli smartphone, con la tv digitale, con il web. È per questo che Greta irrita, perché rovescia Freud e dimostra che la più goffa delle stramberie pedagogiche è ormai l’ultima ratio dell’ecologia.