Francesco Verderami
«E ditemi: cosa farà Renzi?». Dopo averlo chiesto ai dirigenti del Pd, dopo aver cercato di capire attraverso i suoi compagni di partito quali potrebbero essere le mosse dell’ex premier, alla fine Conte ha deciso di cercarlo. Se è vero infatti che il presidente del Consiglio ha un modo «arzigogolato» di esprimersi, se è vero che «nelle discussioni è un personaggio sfuggente e difficile da afferrare» — come ha raccontato Zingaretti dopo averlo conosciuto — c’è un motivo se invece è stato diretto nel porre la domanda su Renzi. Perché Renzi agli occhi di Conte rappresenta la variabile indipendente della maggioranza e insieme un’incognita che potrebbe alla lunga determinare le sorti del suo governo. E dunque non gli basta, non gli può bastare l’analisi che ha ascoltato dai dirigenti del Pd: la tesi cioè che l’ex segretario dem non abbia molti margini politici di manovra; il fatto che nei sondaggi — nonostante il ruolo avuto nella crisi — non sia mutato il suo basso indice di gradimento; la convinzione che la nascita di un suo partito non avrebbe oggi grande seguito nell’opinione pubblica e soprattutto nei gruppi parlamentari, specie dopo la nomina di Guerini a titolare della Difesa. Troppe teorie e nessuna certezza.
Invece Renzi è fonte di preoccupazione per il premier. E chi lo conosce scorge nel suo periodare una latente forma di ossessione. Perché nonostante Renzi sia fermo, Conte lo vede in movimento. Malgrado Renzi abbia assicurato un rapporto «non conflittuale», Conte lo immagina intento a organizzare un cambio in corsa a Palazzo Chigi che non interrompa però il corso della legislatura. Perciò deve cercare di gestire il rapporto con il suo predecessore, che sarà più complicato e meno lineare di quello già difficile con Di Maio. L’idea che Renzi possa aver barattato «l’ora X» con i due ministri di riferimento che siedono in Consiglio, non gli passa nemmeno per la testa. Nell’ultima e convulsa fase della definizione della squadra, Conte non ha smesso di monitorare le mosse dell’ex premier, la tattica adottata, il cambio all’ultimo momento dei suoi candidati che assomigliavano a pedine di un gioco imperscrutabile.
Non lo preoccupavano le liti che erano scoppiate nel Pd, l’accesa contestazione di Delrio che accusava Zingaretti di una suddivisione iniqua degli incarichi ministeriali. Conte teneva sempre gli occhi su Renzi. E a Renzi aveva pensato anche nei giorni in cui aveva discusso il programma con i dirigenti democrat, mentre i nuovi alleati gli spiegavano con fare didascalico il cuneo fiscale e l’impatto che avrebbe avuto il suo taglio sulle imprese. Il premier, che è meticoloso, sta tentando di programmare tutto. Per esempio sa che non ci saranno soldi per la Finanziaria e che per il taglio dei parlamentari i grillini non vogliono andare oltre il prossimo trimestre.
Per evitare i tafferugli della scorsa esperienza gialloverde ha persino codificato le regole dei Consigli in giallorosso, stabilendo che sui temi politici parleranno solo i capi delegazione dei due partiti.
Ma il futuro non può prevederlo. E nel futuro c’è anche Renzi, che forse romperà presto o forse lo farà nel giro di sei mesi. Per capirlo, Conte ha deciso di cercarlo.
Fosse rimasto in buoni rapporti, avrebbe potuto chiedere al leader della Lega. «Salvini — come rivela un ex ministro del Carroccio — si sentiva spesso con Renzi, anche mentre eravamo al governo». Tra i due c’era un patto: dividersi le spoglie del Movimento. Ma il patto prevedeva che la legislatura sarebbe continuata, e quando il ministro dell’Interno ha chiesto il voto, l’altro Matteo si è sentito sciolto dall’accordo. «E ci ha fregati».