Fulvia Caprara
C’è un tempo, nella vita, in cui il furore criminale si trasforma in attesa della morte. E’ allora che le imprese sanguinarie, gli agguati, i tradimenti, l’illusione del potere, la pratica della violenza, diventano fardelli con cui è difficile convivere, fantasmi in quel corridoio grigio che porta alla fine di tutto. Lo stesso che, nelle prime sequenze di The Irishman, il film evento di Martin Scorsese proiettato ieri alla Festa del cinema alla presenza del Presidente Mattarella, conduce alla stanza dove il protagonista Frank Sheeran (Robert De Niro), canuto, stanco e costretto sulla sedia a rotelle, fa il bilancio di un’esistenza sbagliata. Per le ferite, inferte e subite, non c’è più nessuna cura, nemmeno il conforto della fede perché senza la confessione e il pentimento, invano sollecitati da un sacerdote volenteroso, non ci sarà perdono: «Il film – dice Scorsese – è incentrato su lealtà, amore, fiducia, tradimento, c’è azione ed emozione, ma la prospettiva da cui tutto viene raccontato è la vecchiaia, con il suo senso di mortalità». Proiezioni tutte esaurite Sullo schermo, nell’opera che il direttore Antonio Monda ha fortissimamente voluto alla Festa combattendo con altri Festival per averla in anteprima, la parabola del killer Sheeran, veterano della Seconda guerra mondiale al servizio della criminalità organizzata, si intreccia con quella di Jimmy Hoffa (Al Pacino) celebre e discusso sindacalista americano, che tra gli Anni 40 e 50 aveva trasformato l’«International Brotherhood of Teamsters» in una sorta di oscuro contropotere dominato dalle logiche del ricatto e della corruzione: «E’ una storia che si rivolge a chiunque perché anche se non è contemporanea, parla di un’esperienza umana, di confini tra moralità e immoralità». Per seguire la prima proiezione, ieri mattina all’Auditorium, il pubblico era in fila dalle 8, gli organizzatori avevano anche già previsto una proiezione supplementare in un’altra sala, andata subito esaurita. Nel tessuto del film, nel modo in cui è nato e nei sentimenti che provoca, c’è molto di più della trasposizione cinematografca del libro di Charles Brandt L’irlandese. Ho ucciso Jimmy Hoffa (Fazi editore), della sceneggiatura di Steven Zaillian, degli effetti speciali che hanno permesso ai protagonisti di risultare assolutamente credibili sia da giovani che da uomini maturi e poi da anziani malati: «Io e De Niro – racconta Scorsese – volevamo da tempo tornare a fare un film insieme. Dopo Casinò eravamo a un punto di svolta, una specie di bivio, continuavamo a cercare progetti da condividere, ma le nostre vite, in quella fase, avevano preso direzioni diverse». A unirle di nuovo è stata la passione con cui De Niro ha descritto al regista il libro di Brandt: «Bob me lo ha raccontato nei minimi particolari, e, mentre parlava, si infervorava sempre di più. Sentivo che dentro quel racconto c’era tanto oro da andare a cercare, e che se Bob ci era entrato così profondamente voleva dire che tutto sarebbe risultato vero e genuino. In fondo è l’unico che conosce davvero le mie origini, il mondo da cui provengo, ed è da questa vicinanza che sono nati film come Mean Streets». Scegliere Al Pacino per la parte di Hoffa è stato naturale, quasi scontato, solo lui poteva calarsi così bene nei panni di un uomo irascibile e contraddittorio, goloso di gelato, amante della puntualità, potente al punto da far rialzare la bandiera Usa a mezz’asta nel giorno della scomparsa del Presidente John Kennedy, per lui nemico odiatissimo: «Non avevo mai lavorato con Al Pacino, che ho conosciuto negli Anni 70. L’idea è stata di Bob. A quel punto il film c’era già, per girarlo ci è voluto parecchio tempo, ma non abbiamo avuto bisogno di parlare, sul set tutti e due sentivano di fare qualcosa di speciale, erano costantemente presenti, mai distratti, anzi, qualche volta ho dovuto dir loro di andare a riposarsi, temevo si stancassero troppo». Per la prima volta, in un film di gangster, i mattatori non risultano affascinanti e nemmeno idealizzati, e questo è uno dei tanti miracoli dell’opera: «Non abbiamo mai pensato di dover essere spettacolari, non c’era necessità di aggiungere nulla, non volevamo esaltare nessuno». I percorsi di Sheeran, di Hoffa, di Russell Bufalino (Joe Pesci) sono segnati da una giustizia superiore, seguono le regole di un melodramma dove il castigo è inevitabile, si sfaldano nelle morti improvvise e nei malanni dell’età che rendono tutti uguali, indifesi e impauriti: «C’è la malinconia di Frank, abbandonato dai familiari, ma soprattutto c’è la malinconia di sapere che conflitti e violenze appartengono al passato e che la morte è una parte della vita». «Con Netflix libertà creativa» Un affresco così potente richiedeva tempo e denaro: «Il film costava molto, a Hollywood nessuno ci ha offerto i soldi necessari. L’intero esperimento, con tutte le magie che comporta, a partire dagli effetti digitali che hanno permesso il ringiovanimento degli attori, è stato realizzabile grazie all’impegno di Netflix che ci ha dato la possibilità di lavorare con assoluta libertà creativa. In cambio del sostegno finanziario l’unica condizione richiesta è stata la visione del film in streaming, ma sempre dopo un periodo passato in sala». A New York la finestra è di un mese, in Italia The Irishman verrà proiettato dal 4 al 6 nei cinema selezionati e, dal 27, sarà disponibile su Netflix: «Per far vedere i film bisogna, prima di tutto, girarli – risponde Scorsese a chi gli ricorda le crociate in favore del cinema in sala -. E senza Netflix questo film non ci sarebbe. E’ chiaro che la soluzione migliore sarebbe vedere i film nei cinema, ma è anche vero che oggi le sale sostengono più che altro film che sembrano parchi dei divertimenti. Ma il cinema non è solo questo e bisogna che i giovani lo sappiano». Se poi i ragazzi «vedono i film su Ipad e cellulari», aggiunge l’autore, «non è il caso di essere rigidi. Del resto i film in sala restano al massimo 4 settimane, stiamo andando verso un periodo di grandi cambiamenti, le tecnologie offrono infinite possibilità». E in ogni caso The Irishman, come a suo tempo Roma di Alfonso Cuaron, dimostra che l’arte, in sala o in streaming, conserva il suo marchio inconfondibile.