Gad Lerner

Il Frecciarossa in partenza alle 8 dalla Stazione Centrale di Milano ieri mattina s’è trasformato in Frecciaverde, lanciato verso la grande piazza romana in cui verrà battezzata una destra a trazione leghista. Sono loro i protagonisti della spallata al governo Conte: treni e autobus zeppi di militanti col fazzoletto verde e la felpa del comune di residenza (Cinisello, Senago, Paderno Dugnano, Treviglio, Crema) che ormai si trascinano dietro i resti del Berlusconi padano, altrove già sorpassato dalla Meloni. A Roma troveranno lei, Giorgia, che scalpita, nuova beniamina della folla, ma sa bene che al governo potrà tornarci solo mettendosi a rimorchio di Salvini. Altro che centrodestra moderato e liberale, ammesso che lo fosse quello a trazione berlusconiana. Sulla carrozza 5 incontro dei giovani consiglieri comunali di Sesto Calende e Besano, in provincia di Varese. Mi invitano a bere un caffè e raccontano del loro movimento Lombardia Ideale nato in appoggio al governatore Fontana per raccogliere i transfughi del vecchio centrodestra. Ammiratori di Putin, delusi da papa Bergoglio («protegge gli immigrati non perché ci crede ma perché sostiene gli interessi dello Ior»), rivendicano la loro cultura di destra sociale e tradizionalista: «Spiace dirlo, ma oggi mi sento più cristiano ortodosso che cattolico», mi confida Luca Iaconianni, lettore dei Vangeli apocrifi in cui l’accoglienza è subordinata al rispetto della dottrina da parte dei nuovi venuti. Per loro, piazza San Giovanni serve a riportare in auge il “modello lombardo”, depurato dall’affarismo dei vari Caianiello di Forza Italia. E l’“orgoglio italiano” predicato dal neo-patriottico Salvini? E l’invito a sventolare il tricolore? Lo prenderanno sul serio, da queste parti? O mi risponderanno come il vecchio responsabile organizzativo della Lega bergamasca: «Io resto a favore della divisione in tre macro-regioni proposta da Miglio. Ora noi leghisti facciamo i nazionalisti perché abbiamo sbattuto la testa troppo a lungo. Ma resta il fatto che in Lombardia abbiamo avuto gli austriaci che ci hanno insegnato a fare le industrie. Mentre giù al Sud hanno avuto i Borboni che gli hanno insegnato a fare i furbi. Certe cose non le cambi. Meglio mantenersi distinti». Certo, nel tragitto a piedi dalla Stazione Termini a piazza San Giovanni, la fiumana leghista s’ingrossa grazie ai nuovi arrivi. Ventotto pullman solo dalle Marche, mi assicura una gentile signora anconetana. Ci sono anche leghisti venuti su da Brindisi. Ma la locomotiva resta saldamente padana. In piazza, la protesta antigovernativa non sembra avere più al suo centro il rifiuto degli immigrati e la denuncia dei crimini, soprattutto di natura sessuale, ad essi ascrivibili. Certo, da Fedriga alla Meloni non mancheranno crudi riferimenti a tale piaga, accompagnati dalla piena solidarietà con le guardie carcerarie accusate di maltrattamenti sui detenuti, e dalla richiesta di mano libera per i poliziotti («Togliere il galateo alle forze dell’ordine e riconsegnare il manganello», ha proposto Zaia). Ma sembra venuto in auge un nuovo oggetto-simbolo contro cui si esprime il malcontento della destra antitasse: il POS, dispositivo per i pagamenti elettronici. Per meglio dire, è l’abbinamento tra il POS e le manette, a esacerbare gli animi. Perché le manette in verità piacciono, a questa piazza, purché adoperate contro i nemici del loro popolo. Chi s’illudeva che la manifestazione dell’“orgoglio italiano” trasformasse Salvini nel leader di un nuovo centrodestra liberale, pretendeva da lui una torsione contronatura. Egli guida un movimento reazionario ma autenticamente popolare, la cui forza risiede proprio nella negazione del liberalismo. Quando Berlusconi, circondato dalla sua claque, si è messo a discettare sulle prerogative dello Stato nella sfera privata dei cittadini, dalla folla saliva un brusio annoiato. Apoteosi, invece, per il “Dio, patria e famiglia” della Meloni. Dovendo ricostituire la coalizione con “Giorgia e Silvio” su cui punta per vincere le prossime elezioni regionali, e farsi perdonare il giro di danza con i Cinquestelle, il Salvini di piazza San Giovanni appariva molto ammorbidito: «La mamma mi ha raccomandato di sorridere». Perfino al sottoscritto, bersagliato dai soliti cori per la verità in tono minore, ha augurato lunga vita, sostenendo che a dividerci non sarebbe altro che il tifo calcistico. Quasi niente parolacce. Nessuna esibizione di simboli cristiani davanti alla Basilica lateranense. La sua premura di padrone di casa era evidentemente quella di evitare incidenti diplomatici con i due leader ospiti cui aveva sbattuto in faccia la supremazia assoluta della Lega. Li ha introdotti, ha raccomandato alla piazza di applaudirli, li ha richiamati sul palco per il saluto finale: «Non si vince mai da soli», è una frase che solo qualche mese fa non apparteneva certo al suo repertorio. Salvini sa bene di aver bisogno di “Giorgia e Silvio”, e quindi lascia ai suoi ideologi di riferimento -Maria Giovanna Maglie e Alberto Bagnai- la soddisfazione delle pulsioni più estremiste. Riservandosi solo, in materia di migranti, un’accusa tanto greve quanto generica: «Al governo abbiamo gente con le mani sporche di sangue». Nel tramonto di questa ottobrata romana, mentre i treni e gli autobus riprendono la via del Nord, il capo leghista ruzzolato giù dal governo può tirare un sospiro di sollievo. Si riconferma a capo di una destra popolare vasta, galvanizzata dalle divisioni interne della compagine governativa, convinta di poterla travolgere nel giro di pochi mesi. Per questo Salvini ha goduto di indulgenza generalizzata da parte del suo popolo, nonostante l’evidenza degli errori da lui commessi. Dal palco non poteva infine che lanciare un «invito alla pazienza», perché «la calma è la virtù dei forti», corredato dalla promessa di vincere tutte le prossime nove scadenze elettorali. Se questa macchina da guerra s’inceppasse, lui ne pagherebbe le conseguenze. Ma la destra riunitasi ieri a San Giovanni, illiberale per vocazione fin dal 1994, quando Berlusconi si portò dietro post-fascisti e leghisti pur di conquistare la maggioranza, anche senza di lui resterebbe una forza egemone di questo paese.