Gad Lerner

Lo stabilimento siderurgico di Taranto, entrato in funzione 55 anni fa, è stato fin dall’inizio una fabbrica sbagliata, con percentuali intollerabili di incidenti sul lavoro e di avvelenamento della popolazione residente intorno alle sue ciminiere. Una fabbrica sbagliata che nel passaggio dalla proprietà pubblica ai privati ha arricchito imprenditori rapaci prima di arrivare oggi al concreto rischio di chiusura, che sommerebbe catastrofe sociale alla catastrofe ambientale già perpetrata. Il grande sconfitto, insieme ai tarantini, è il riformismo: ovvero qualsivoglia progetto di riconversione che rendesse compatibile la produzione dell’acciaio con la bonifica del territorio. Sviluppo e salvaguardia dell’ambiente: in altri Paesi europei ci sono riusciti. A Taranto ci hanno provato in tanti, almeno a parole. Non ci è riuscito nessuno. La fame di lavoro del Mezzogiorno, la miopia dei boiardi delle Partecipazioni Statali, e in seguito la rapacità di un’impresa privata, la Riva, bene inserita nell’establishment, hanno concorso a portare sull’orlo dell’abisso il più grande stabilimento industriale italiano, fornitore della materia prima su cui si regge gran parte del nostro settore manifatturiero. Chi s’illude che un tale evento — la chiusura dell’acciaieria — non possa davvero verificarsi, evidentemente ha dimenticato la “notte dei fuochi di Crotone”. Era il 6 settembre 1993, quando una sommossa popolare appiccò il fuoco agli stabilimenti dell’Enichem, della Pertusola e dell’indotto, cioè del polo chimico calabrese di cui era stata annunciata la chiusura definitiva. Nel giro di pochi anni Crotone è passata dal reddito più alto al reddito più basso dell’Italia meridionale; e ancora deve fare i conti con i veleni lì seppelliti. Rileggo l’amaro resoconto del tarantino Alessandro Leogrande, scritto nel 2016 mentre accompagnava suo padre a fare la chemio. Il quarto centro siderurgico italiano, l’Italsider di Taranto, nasceva alla metà degli anni Sessanta come «un progetto barbarico d’industrializzazione» (parole di Antonio Cederna). L’allarme lanciato dagli ambientalisti rimase inascoltato. Anzi, nel decennio successivo l’impianto venne raddoppiato, accumulando a cielo aperto nel cosiddetto Parco minerario le tonnellate di polveri rossastre che il vento sospingerà ad avvolgere il rione Tamburi. Fino a provocare, in certi momenti, la chiusura temporanea delle scuole perché era meglio che i bambini non uscissero di casa. L’ultima volta è successo nel marzo scorso. Statistiche inequivocabili certificano il boom delle malattie neoplastiche e respiratorie, con innalzamento brutale della mortalità. Invano si cominciò a predicare la necessità di far coesistere la salvaguardia della salute con lo sviluppo. Perché l’imperativo numero uno rimaneva scongiurare la chiusura della fabbrica, giunta fino a un organico di ventimila dipendenti. Manager e periti senza scrupoli non esitarono a falsificare i dati sulle emissioni. Di fronte all’evidenza, nel 2010 il governo Berlusconi varò perfino un decreto legge che rinviava di quattro anni il rispetto dei limiti di benzo(a)pirene, sostanza tossica cancerogena. Passando di deroga in deroga, la politica come al solito ha finito per scaricare sulla magistratura l’obbligo di tutela della salute dei cittadini. Salvo poi accusare di abuso di potere la procura di Taranto quando, nel 2011, fu avviata un’indagine per “catastrofe ambientale” che portò al sequestro dell’area a caldo e allo spegnimento di un altoforno. Ricordo ancora il titolo con cui Libero azzannò la gip Patrizia Todisco: “La zitella rossa che licenzia 11 mila operai Ilva”. Allora i Riva, che passavano per padroni illuminati, autorizzarono gli operai a inerpicarsi per protesta sul nastro di carico (posto a 60 metri d’altezza) dell’altoforno di cui era stato decretato lo spegnimento; e incoraggiarono tutti i loro dipendenti a scioperare contro la magistratura. In piazza Gesù Divin Lavoratore, cuore del rione Tamburi, si toccava con mano il dramma lacerante di migliaia di famiglie colpite da lutti eppure bisognose di quei posti di lavoro. Si scambiavano accuse di tradimento, non si sapeva più se dare retta ai sindacati che dicevano “la produzione prima di tutto”, o ai giudici che dicevano “la salute prima di tutto”. Chi invece aveva già perso ogni credito di fiducia era la classe politica locale, corrotta non certo solo dalle bustarelle dei Riva. Era il 2012. Sei anni dopo, il 4 marzo 2018, il Movimento 5 Stelle avrebbe raggiunto il 47% dei voti nella città di Taranto. La speranza riformista era già tramontata, cedendo il passo a una protesta priva di obbiettivi realistici: al dunque, neanche chi vagheggiava di riconvertire l’Ilva trasformandola in parco tecnologico ebbe il coraggio di chiedere sul serio la chiusura della fabbrica. Così arriviamo al ricatto odierno esercitato dalla nuova proprietà, ArcelorMittal. Che si è aggiudicata l’impianto promettendo, come già i suoi predecessori, l’avvio di un piano di bonifica, a condizione di godere di uno scudo penale: una manleva sui trascorsi di questa fabbrica sbagliata ma ancora potenzialmente redditizia. Nella catena mondiale della siderurgia, la fabbrica sbagliata è diventata l’anello debole su cui una multinazionale può infierire, interessata com’è soprattutto a inibire l’espansione della concorrenza. Risultato che oggi può conseguire sia attraverso consistenti tagli occupazionali (si parla di 5 mila esuberi), sia chiudendo la fabbrica dopo aver scongiurato l’insediamento della cordata rivale. Chi adesso torna a scaricare la responsabilità sulla magistratura, colpevole di aver cercato di esercitare il dovere costituzionale di tutela della salute dei cittadini, ha la coda di paglia. Il sindacato che chiede il ripristino dell’immunità penale per ArcelorMittal in cambio dell’impegno a non licenziare, fa il suo mestiere ma minimizza il problema dell’inadeguatezza degli impianti. Mezzo secolo dopo, le metastasi della fabbrica sbagliata rischiano di assestare un colpo esiziale all’intera struttura industriale di un paese che per vivere ha bisogno di acciaio e di aria pulita.