Giampaolo Cadalanu

Il braccio straziato dal fuoco, la maglia nera e strappata a rivelare la pelle ustionata, un sopravvissuto del convoglio civile diretto da Tal Abyad a Ras al-Ayn cerca di alzare il busto, poi scivola di nuovo sull’asfalto, mentre dietro di lui le fiamme salgono fra le lamiere di un furgoncino. Accanto, pozze di sangue, corpi senza vita, qualcuno irriconoscibile, altri a cui le bombe turche arrivate dall’alto hanno concesso la compostezza della morte. Una donna corre a sollevare il superstite per allontanarlo dall’auto che brucia, grida, chiede aiuto. Poi le immagini si fermano, lasciando pensare che l’autore del filmato diffuso su Internet sia corso a fare la sua parte, da essere umano. Ma spesso è la testimonianza che serve, quando gli ordini sembrano essere che nessuno deve giudicare, nessuno deve raccontare quello che succede nel Rojava. Il fischio delle bombe d’aereo che scendevano sul convoglio civile diceva proprio questo: i giornalisti stranieri devono stare a casa loro. Fra i morti ci sono sicuramente almeno due reporter: uno dell’agenzia curda Hawar, il giovane Saad al Ahmad, e un altro cronista straniero, per ora senza nome. Potrebbe essere ucraino, secondo alcune fonti locali. Altri giornalisti sono feriti, ma visto che proprio chi porta le notizie è nel mirino, le informazioni sono frammentarie. Stephanie Perez, di France2, ha scampato per un pelo l’attacco, con la sua troupe: parla di almeno 11 morti e una ventina di feriti. L’intento è chiaro: messo il bavaglio con una raffica di arresti ai giornalisti turchi “poco patriottici”, il governo di Ankara ora vuole dissuadere la stampa internazionale, cancellando ogni possibile testimone sulla natura reale dell’operazione “Fonte di pace”. Se i civili uccisi sono ormai vicini al centinaio, in compenso c’è chi risorge: sono i jihadisti dello Stato Islamico, pronti ad approfittare del momento favorevole, con i miliziani curdi impegnati a respingere l’attacco turco, per fuggire in massa con le loro famiglie dal campo di detenzione di Ain Issa. Sono 859 i fuggiaschi: mogli, bambini, ma soprattutto combattenti, pronti a tornare alle armi. E a colpire, come hanno già fatto gli uomini dell’Isis con un’autobomba a Qamishli. Scrive sconsolato Mustafa Bali, portavoce delle Forze democratiche siriane Sdf (cioè della coalizione a guida curda che ha sconfitto il Califfato): «Se i Paesi del mondo davvero considerano l’Isis una minaccia, cosa di cui non sono del tutto sicuro, ecco una grande opportunità per dimostrarlo. Altrimenti ne pagheremo le conseguenze tutti assieme, molto presto. Ma stavolta potrebbe non esserci chi fa il lavoro per loro». E ancora: «Non aspettatevi che ci occupiamo noi dei vostri concittadini terroristi, mentre a voi non preoccupa vedere i nostri bambini massacrati, la nostra gente deportata e la nostra regione al centro della pulizia etnica». È proprio questo l’aspetto più straziante nell’intera tragedia del Rojava: la percezione di tradimento, di abbandono, che il popolo curdo percepisce, abbandonato ancora una volta al suo destino dopo aver pagato il prezzo più alto per debellare il sedicente Stato Islamico. L’Europa ragiona su possibili sanzioni, ipotesi che Erdogan accoglie con disprezzo: «Nessun embargo ci fermerà». E da Washington ieri è arrivato l’ultimo schiaffo: l’annuncio che saranno ritirati “circa” mille soldati dalla zona di Kobane. Ma “circa” mille sono “circa” tutti i soldati Usa del Rojava: è una ritirata, non è un ridispiegamento. È una scelta voluta da Trump e accettata obtorto collo dal Pentagono, con i generali che lasciano filtrare molto malumore. Ma soprattutto è un’umiliazione per i militari, costretti a far le valigie perché i colpi dell’artiglieria di Ankara sono arrivati vicini alla loro base. «Deliberatamente vicini», dice Brett McGurk, ex inviato della Casa Bianca nella campagna contro l’Isis. E allora è ancora più mortificante il richiamo della madre di Kobane che grida ai soldati americani: «Sono cinque anni che proteggiamo questa città. Voi che fate qui? Non vedete che la Turchia uccide i nostri bambini? Dovranno essere uccisi tutti, prima che facciate qualcosa?». A rispondere però non è l’America. Messi con le spalle al muro dall’offensiva congiunta fra aviazione turca e truppe di terra dell’Esercito libero siriano, rimasti senza risposta all’ingenua richiesta di combattere ad armi pari – cioè con una no-fly zone, che avrebbe permesso alle Sdf di affrontare solo i miliziani siriani dell’Els – i curdi nei giorni scorsi avevano aperto trattative con Damasco. Meglio rinunciare all’indipendenza, pur agognata, ma sopravvivere al genocidio. E ieri il governo siriano ha risposto: le prime colonne di Assad sono già entrate a Manbij e si avvicinano a Kobane. L’accordo fra curdi e Damasco prevede che le truppe governative si schierino sul confine con la Turchia, a nord della Siria. Un’intesa, dice nel suo comunicato l’amministrazione del Rojava, ottenuta con il benestare del Cremlino. E per Recep Tayyip Erdogan sapere che senz’altro Vladimir Putin può essere tentato dall’idea di occupare lo spazio abbandonato dagli americani non è un pensiero da poco.