Giampaolo Cadalanu

Non si lamenta, Abdulakim Abdelaziz Said: tutto sommato aver lasciato la casa di Serekaniye per la tenda dell’Unhcr marcata B2 non gli pesa. «Per me è meglio qui in Iraq, che in Siria. Ho quasi settant’anni, mi resta poco da vivere. Ma non voglio morire solo, voglio stare in mezzo ai miei figli». Quando la famiglia era scappata dallo Stato islamico, sei anni fa, il capofamiglia aveva scelto di aspettare la pensione per raggiungerli. Poi, le bombe dell’esercito turco lo hanno spinto a superare gli acciacchi dell’età e lasciare la casa del Rojava per raggiungere a piedi il confine iracheno. I peshmerga lo hanno portato fino al campo profughi di Bardarash, e adesso per lui l’unica cosa che conta è raggiungere i figli nel campo di Domiz. Abdulakim si aggiusta la keffyah e si allontana dagli altri anziani, seduti sui blocchetti che fanno da ingresso alla tenda, con un bicchiere di tè: «Glielo dica lei, agli asaysh, gli uomini dei servizi di sicurezza, che sono una brava persona, così mi faranno andare dai miei. Glielo dica lei, che Dio la benedica». Mentre Abdulakim racconta, all’ingresso arriva il convoglio dal confine. I pullman Nissan coperti di polvere sono stipati, si fanno largo ondeggiando sulla strada sterrata e scaricano il carico dei nuovi arrivati. L’amministrazione del campo aspetta 700 persone, e l’impressione è che la grande maggioranza siano bambini. «Quando siamo scappati abbiamo preso solo i nostri figli. Tornare a Serekaniye? Se fosse possibile, mi piacerebbe, ma chissà», racconta Nawad, 36 anni, prima di essere portato alla registrazione. Parween, che è arrivata pochi giorni fa, porta a passeggio sorelle e nipoti. E’ l’unica del gruppo con il velo. «Sì, sogno di tornare, prima o poi. Ma ero appena uscita, quando ho visto la casa del vicino crollare sotto le bombe. Non mi sono più girata indietro». Dalil, invece, sarebbe disposto a ricominciare. «La mia casa è distrutta, non posso ritornare. Ma se ripartire da zero significa stare nel campo profughi, non ci sto. Qui non abbiamo nemmeno il latte per mio figlio di quattro mesi. Certo, potrei mettere radici a Erbil o Dohuk. Ma non c’è lavoro. Che ne dice, in Europa ci sono possibilità?». Sono già almeno tremila i curdi del Rojava arrivati nel Kurdistan iracheno. La maggior parte, dice Andrej Mahecic, portavoce dell’agenzia Onu per i rifugiati, viene dai centri abitati della fascia nord della Siria, quella che Recep Tayyip Erdogan vuole trasformare in zona cuscinetto “ripulita dai terroristi” per farvi insediare i tre milioni di profughi siriani ospiti in Turchia. Il progetto di “ricollocazione” etnica prevede che gli attuali abitanti di città come Kobane o Qamishli vengano spostati, visto che per il governo di Ankara tutti i curdi sono in quanto tali sostenitori delle Unità di difesa popolare, le Ypg che i turchi vedono come alleati del Partito curdo dei lavoratori, il Pkk, fuori legge. E la composizione demografica dei profughi sembra confermare che l’aggressione turca ha spinto molti a prendere le armi. Anche nei pullman in arrivo a Bardarash, gli uomini sono minoranza. «Ci sono molti anziani, donne, bambini», dice Mahecic. Anche Nasawd, che è in Iraq da sette anni e lavora come meccanico, chiarisce: «Se tornassi, dovrei fare il servizio militare con le forze siriane. Oppure in Rojava con le Ypg, per gli uomini è obbligatorio. Preferisco restare qui». «Da quando è cominciato l’esodo, appena finiamo di montare una tenda c’è chi la riempie. Davvero non sappiamo quanti potranno arrivare», racconta Noah Goran, vice direttore del campo di Gawilan, a Bardarash per un aiuto d’emergenza. La struttura è finanziata dal governo regionale curdo e dalle Nazioni Unite. Per ora chi fugge dal Rojava viene qui, perché c’è posto. Ma Bardarash è uno dei pochi campi che si era svuotato, rimandando la gente a casa dopo la fine del Califfato: negli altri campi del nord Iraq, una ventina, gli sfollati sono oltre 200mila. «Non sappiamo quanto resteranno. Ma sappiamo che qui possono trovare un tetto e tre pasti al giorno» dice Goran. Ma anche se l’accordo sul cessate-il-fuoco è stato condiviso da diversi comandanti curdi, proprio il “ricollocamento” resta l’incognita più difficile da sciogliere. Un’intesa sul “come” gestirlo non c’è. In questi giorni la sopravvivenza è il primo elemento a cui pensare. C’è persino, racconta la tv curda Rudaw, chi è ricorso ai contrabbandieri per farsi accompagnare oltre il confine iracheno, lontano dai cacciabombardieri di Erdogan e dai tagliagole dei gruppi jihadisti. La fuga attraverso le montagne, compreso un tratto a cavallo e la barca per attraversare il Tigri, costa dai 400 ai mille dollari. Ma poi? Jamal, 11 anni, confessa che a Bardarash gli mancano già gli amici. Dice un proverbio curdo: «L’Oriente è zucchero. Ma casa propria è molto più dolce».