Giampaolo Cadalanu

Al centro della sala per gli uomini, Haji Hosin Sultani ha sistemato due tappeti nuovi, così gli invitati dei matrimoni hazara non vedono i segni dell’esplosione sulle mattonelle. Le pareti della Dubai Wedding Hall sono già ridipinte, con panorami e laghi di montagna. L’odore di vernice viene dal cancello, dove un giovane finisce gli ultimi ritocchi, proprio davanti al dipinto con i Buddha di Bamyan. «Dal giorno dell’attentato abbiamo già ospitato nove feste di nozze», dice Haji, orgoglioso di aver potuto spendere 45mila dollari per ricostruire il locale devastato ad agosto da un attentatore suicida dell’Isis-Khorasan. «Le elezioni? Non ho nessuna intenzione di andare a votare. Nell’attacco, qui, sono morte 83 persone. E dei politici che pure si ripresentano candidati, nessuno è venuto a fare le condoglianze, o a chiedere se avevamo bisogno di qualcosa». Ma l’idea di mollare Haji Hosin non la prende nemmeno in considerazione: «Sono sempre vissuto qui, da quando ho memoria ricordo guerra e attentati. Mio fratello è stato ucciso da un mortaio durante la guerra civile, mio padre rapito e assassinato da criminali comuni, io ho la scheggia di una bomba nella testa. Lo so, qui facciamo una vita che voi non accettereste nemmeno per i cani. Ma è la nostra routine. E andiamo avanti». Sui pannelli di calcestruzzo a T che proteggono il ministero della Difesa, un murale celebra i cent’anni di indipendenza dell’Afghanistan. L’edificio è un possibile obiettivo di attentati e la strada è quasi deserta. Faheez, 12 anni, fa pochi affari con la bacinella dove tiene nel ghiaccio le lattine di Coca Cola e del locale Alokozay Energy drink. A chi ne compra più d’una, il piccolo venditore consegna una busta con il logo di una colomba e la scritta in dari e pashto: “Vogliamo la pace”. Per le vie i manifesti elettorali sono pochi. I candidati alla presidenza avrebbero dovuto farli sparire prima del voto di oggi, ma non sempre i potenti dell’Afghanistan si sentono in dovere di rispettare le regole. Per la presidenza sono in lizza sedici nomi, anche se gli analisti prevedono un duello ravvicinato fra l’attuale capo di Stato, Ashraf Ghani, e il premier Abdullah Abdullah. Sulle schede, quest’ultimo è indicato con una bilancia, mentre il presidente usa come simbolo il Corano. «A volte c’è chi bara anche nell’estrazione a sorte dei simboli», dice Fawzia Koofi, ex vicepresidente del Parlamento. Lei andrà a votare, ma senza entusiasmo: «Sono tutte facce già viste, niente di eccitante». C’è persino Gulbuddin Hekmatyar, signore della guerra fra i più spietati. «In ogni caso, meglio vederlo così: ballots, not bullets. Urne, non pallottole», dice Koofi. Il dubbio reale è sull’affluenza al voto: dalle province arrivano notizie sconfortanti, nelle zone a prevalenza pashtun i seggi aperti saranno pochissimi. E alle minacce dei talebani si affianca una diffusa percezione di inutilità. La sospensione dei colloqui di pace di Doha, fra Usa e integralisti, ha svuotato di significato l’appuntamento elettorale. Il giudizio di Koofi è condiviso: «La gente non rischierà la vita per personaggi che hanno fatto ben poco per migliorare la situazione di sicurezza o l’economia. Sarebbe stato meglio prima un accordo di pace, poi il voto». Un successo alle elezioni potrebbe solo consolidare il ruolo di Ghani, imponendo di fatto ai negoziatori Usa il coinvolgimento del governo di Kabul nelle trattative di Doha, ipotesi che i talebani hanno finora totalmente escluso. Sopra Kabul, le casette sulle pendici del monte Sher Darwaza risplendono dell’intonaco colorato, distribuito di recente dal comune di Kabul per migliorare la città: domina il celeste, ma c’è anche il giallo e il rosa. «È il Distretto 1, il più difficile. Noi lavoriamo lì», racconta Luca Lo Presti, anima della Fondazione Pangea, presente in Afghanistan dal 2003. «Le donne del quartiere ci raccontano di aver paura. Dicono che i talebani possono tagliar loro le dita, se le trovano colorate con l’inchiostro che testimonia il voto». «Spero proprio che i talebani non tornino al governo, sarebbe una disgrazia per le donne», dice Moon, seduta davanti a un tè sulla terrazza del caffè Taj Begum. È uno dei locali dove i giovani di entrambi i sessi si incontrano per due chiacchiere senza troppi problemi. Laureata in Relazioni Internazionali in Kirgizistan, Moon sogna di diventare un diplomatico e chissà, magari il primo presidente donna. Gli amici seduti al tavolino tirano una boccata di fumo all’aroma di arancia e menta dal narghilé e scherzano: «Perché mai l’Afghanistan dovrebbe avere un presidente donna? Il Corano non lo prevede». Andranno a votare? Certo. Per chi, ancora non hanno deciso. Sulla parete del Rasa Kindergarten, nel quartiere di Kart-e Char, fra i murales con bambini e bambine spicca il disegno di due mani colorate. Non ha nulla a che fare con il voto, piuttosto con una ingenua volontà pubblicitaria. Con l’economia strangolata dai problemi di sicurezza, gli afgani si sono concentrati su piccole attività del terziario: a fianco al commercio, le scuole sono un business fra i più fiorenti, quanto meno per le possibilità locali. Mohamed Shwaib, che gestisce la scuola primaria Guzargah-e Noor, non lascia spazio a illusioni: «Abbiamo cominciato otto anni fa, oggi fra asilo ed elementari abbiamo 400 bambini. Ma gli affari sono fermi». Nell’ingresso dell’istituto, sul vialetto che porta al giardino con i fichi e le rose, i bambini imparano le vicende del Paese dalle immagini sul muro. Ci sono i ritratti dei re, quelli dei presidenti dell’epoca filosovietica, e naturalmente prima di Hamid Karzai c’è il volto con un occhio solo del mullah Omar, a ricordare che l’emirato islamico è stato parte integrante della storia afgana, appena ieri.