Gian Antonio Stella

C ome la prenderà il compagno Isaias? Certo, la motivazione del premio Nobel per la pace assegnato al premier etiope Abiy Ahmed Ali ha qualche parola buona anche per lui. E riconosce lo sforzo di «tutte le parti interessate che lavorano per la pace e la riconciliazione in Etiopia e nelle regioni dell’Africa orientale e nordorientale» e dà atto che la pace firmata un anno fa è stata raggiunta appunto «in stretta collaborazione con Isaias Afewerki, il presidente dell’Eritrea». Niente di paragonabile, però, all’omaggio al successore di Albert Schweitzer, Martin Luther King o madre Teresa di Calcutta nella lista dei Nobel più prestigiosi. Un omaggio che riconosce ad Abiy Ahmed di avere «avviato importanti riforme per dare a molti cittadini la speranza per una vita migliore e un futuro più luminoso» e promosso «riconciliazione, la solidarietà e la giustizia sociale». Tutte parole che il vecchio tiranno comunista penserà geloso di meritare per sé. Certo, può darsi che lui, il Presidente della Repubblica Eritrea nonché presidente dell’Assemblea nazionale nonché guida del governo nonché leader del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia nonché eccetera eccetera, colga quelle parole come un incoraggiamento a dare davvero il via a un processo di pace che, dopo la firma del settembre 2018, è rimasto nella sostanza arenato. Ma può darsi però che, al contrario, un uomo come lui che dopo aver vinto nel 1991 la guerra d’indipendenza eritrea ed essersi da allora imposto come presidente, viva anche il Nobel dato «solo» al premier etiope che era la sua controparte il giorno della fine delle ostilità con l’Etiopia, come l’ennesima prova di quella congiura internazionale che denuncia da sempre proponendosi come un uomo di Stato dedito al benessere del suo popolo ma, ahilui!, incompreso dagli altri. Vedremo. Dipenderà anche da quanto peserà il conflitto generazionale fra due uomini così diversi. Da una parte il quarantatreenne premier etiope eletto nell’aprile 2018 e capace nel giro di una manciata di mesi di dare un’iniezione di fiducia al proprio Paese e spingere l’ex nemico a un accordo quasi impossibile da rifiutare. Dall’altra il despota più vecchio di trent’anni che, a dispetto della vecchia battuta di Andreotti, appare logorato da mezzo secolo di guerra e decenni di potere assoluto. Un Duce rosso che si è via via tirato addosso le accuse della comunità internazionale che l’accusa di torture, di Amnesty («sono in migliaia a tentare di fuggire per non subire l’oppressione del governo o per evitare la leva obbligatoria a tempo indeterminato»), di Reporters Sans Frontieres che dopo l’esodo di tutti i giornalisti stranieri e la chiusura dei giornali nazionali (tranne la fedelissima «Haddas Eritrea» e un canale televisivo di osanna al Capo) piazza quello eritreo come il terz’ultimo Paese al mondo per libertà di stampa. Tutte cose che, per quanto i selezionatori dei Nobel per la Pace abbiano mostrato in passato una certa indulgenza verso qualche leader autoritario o qualche personalità discussa, non avrebbe proprio consentito, oggi, un premio alla pari. Ma lì torniamo: come la prenderà, il vecchio dittatore che si vede come un padre amorevole del popolo che tiene sotto il tallone?