Gianluca Di Feo

L’allarme suona a ogni ora, soprattutto di notte. E i militari italiani corrono nei bunker sotterranei, sentendo i missili esplodere a poche centinaia di metri. Succede molto spesso, da più di un mese. Da quando anche l’aeroporto di Misurata è diventato zona di combattimento, l’ultimo fronte della guerra civile libica. Tra crisi di governo e ferie agostane abbiamo dimenticato il conflitto in Libia. Ma le battaglie sono sempre più feroci, con armi tecnologiche di nuova potenza. Di fronte agli insuccessi sul terreno, il generale Haftar risponde con i raid dei droni cinesi forniti dagli Emirati Arabi. E ha preso di mira anche le brigate di Misurata, la forza più addestrata al fianco del governo di Tripoli. Il problema è che nell’aeroporto della città dal 2016 si trova l’ospedale militare italiano della missione Ippocrate: sul tetto ci sono una grande croce e una mezzaluna, entrambi rossi, simboli universali a protezione dell’attività medica. Dentro una cinquantina di letti, reparti di pronto soccorso e terapia intensiva, sale operatorie e laboratori d’analisi. Negli scorsi anni hanno curato i feriti della lotta all’Isis, adesso lì trecento militari assistono solo la popolazione civile, nel segno della neutralità verso i contendenti dei due schieramenti. Per quasi quattro mesi Misurata è stata risparmiata. Poi il 26 luglio è cambiato tutto. I bombardieri teleguidati di Haftar hanno planato sugli hangar dell’Air College, dove si ritiene avessero trovato riparo i droni forniti dalla Turchia, alleata di Tripoli. Con una raffica di ordigni a guida laser hanno spazzato via l’installazione e una batteria di missili. Le immagini diffuse dalla propaganda mostrano gli effetti dell’incursione: la zona devastata è esattamente a 400 metri dall’ospedale italiano. Da quel giorno non c’è stata più pace. Il 3 agosto la contraerea misuratina, forse usando un’arma laser turca, ha abbattuto un aereo senza pilota cinese Wing Loong, potente come i celebri Reaper statunitensi. La rappresaglia è arrivata dopo 72 ore. In piena notte, i droni di Haftar hanno centrato un gigantesco aereo cargo ucraino appena atterrato sulla pista. Era carico di munizioni, che hanno illuminato l’oscurità con dozzine di colossali esplosioni riprese dai video degli abitanti: uno spettacolo terrificante. Le foto evidenziano la sagoma carbonizzata del velivolo: dista circa cinquecento metri dalla nostra base. Non solo. In quegli stessi minuti un Hercules della nostra aeronautica si stava dirigendo verso Misurata, con i rifornimenti settimanali per l’ospedale: appena scattato l’attacco ha invertito la rotta ed è tornato in Sicilia. Gli allarmi, veri o falsi, sono proseguiti senza interruzione. Domenica 18 agosto un nuovo assalto notturno, condotto da un’intera squadriglia di droni. Come rapaci, sono rimasti a lungo in circolo sul bersaglio scagliando tredici missili. C’è un filmato che mostra le scie degli ordini e il bagliore delle denotazioni, le stesse che hanno fatto tremare i rifugi dei soldati italiani. «Il fatto che Misurata ospiti il sostegno bellico turco la rende un obiettivo legittimo dei nostri bombardieri», ha dichiarato il quartier generale di Haftar. Palazzo Chigi è stato informato della situazione d’emergenza. Ma c’era altro a cui pensare: Giuseppe Conte stava preparando il discorso al Senato che ha aperto la crisi. Da allora nessuno se n’è occupato. E le soluzioni non sono semplici. L’Italia sostiene il governo di Tripoli, riconosciuto dalle Nazioni Unite, ma dialoga anche con il maresciallo Haftar: una mediazione condotta senza sosta dall’inizio dei combattimenti dagli emissari dei servizi segreti. A Bengasi ovviamente non vedono di buon occhio il nostro ospedale all’interno della base nemica: ci sono stati proclami infuocati a cui sono seguite rassicurazioni ufficiali, nel carattere levantino delle trattative libiche. In tutte le sedi, Roma ha ribadito che non lì non assistiamo i feriti della guerra civile, ma solo la popolazione. E ha dato concreta disponibilità, anche con il trasferimento in Italia dei casi più gravi, a curare le vittime di entrambi i territori rivali. Questo però non ha evitato che la missione di Misurata finisse in prima linea. Sin dall’8 aprile gli americani, che avevano un contingente nello stesso aeroporto, hanno portato via tutto il personale. La posizione italiana invece è più complessa. Un ritiro da Misurata verrebbe visto come un tradimento dal governo di Tripoli e subito esaltato da quello di Bengasi: comprometterebbe il nostro ruolo di mediatori. Insomma, siamo in una trappola diplomatica nel mezzo di un conflitto sempre più caldo. Per precauzione, il nostro Stato maggiore ha ridotto la presenza al “minimo tecnico”: trecento tra uomini e donne con un centinaio di veicoli, quello che serve per mandare avanti l’ospedale e difenderne il perimetro. I comandi sul campo sostengono che i pericoli sono limitati, perché gli attacchi vengono condotti con armi di precisione. Vero. Ma come si può essere certi che la distruzione di un deposito di munizioni o la ricaduta di un missile della contraerea non coinvolga i nostri soldati e gli aerei Hercules che li riforniscono? L’ultima incursione è stata segnalata il 30 agosto. «Teniamo sotto controllo l’aeroporto di Misurata ogni ora del giorno», ha minacciato il generale Ahmed al-Mesmari, portavoce dell’aviazione di Haftar. Quello che sta accadendo è un segnale chiaro per il nuovo governo: la crisi libica deve essere una priorità d’azione. Perché è lì che si decide il flusso dei migranti e il futuro delle nostre risorse energetiche. E perché adesso ci sono trecento italiani che ogni giorno rischiano di finire sotto i bombardamenti.