Gianni Mura

Dicono dalla redazione centrale: sai, qui a volte ci chiediamo cosa direbbe Brera di quello che è successo nel calcio e fuori dopo la sua morte. Dico che me lo chiedo anch’io, e non solo Brera. Cosa direbbe Arpino di questa poesia, Veronelli di questo vino, Scirea delle generazioni (o degenerazioni) successive. Cosa direbbe Teresa Strada a Salvini. Cosa direbbe su tante cose e persone mio padre. E mi intrappolo da solo. Bene, dicono, serve proprio un pezzo così. A sus ordenes, con una premessa. Non voglio far ballare il tavolino a tre gambe e ho conosciuto da vicino Brera. Non sarò così scorretto da attribuirgli simpatie e antipatie mie di me (brerismo dichiarato). Se sbaglio, sbaglio di poco. Gli sarebbe piaciuto il Mondiale di Germania, una vittoria basata sulla difesa. Avrebbe goduto per il triplete dell’Inter. Due i motivi: l’amicizia che lo legava alla famiglia Moratti e il fatto che sotto sotto (neanche tanto sotto) tenesse all’Inter. Si definiva tifoso genoano per evitare rotture di scatole (già gli bruciavano il Giorno sotto casa per via di Rivera). Non gli sarebbe piaciuto Mourinho, come mai gli piacque il Mago Herrera, pur abbondante di ego, “Yo” era il titolo della sua biografia, mai però quanto lo Specialone. Gli sarebbe piaciuto Belotti, perché guadagnerà bene ma ha la faccia da povero e si sbatte sempre e comunque. Non è Rombo di tuono né mai lo sarà, ma qualche rovesciata l’ha fatta e ci prova sempre e comunque. Gli sarebbe piaciuto il Sarri di Napoli per quella vena cinghialesca , l’avrebbe accusato di eretismo podistico (come fece con Sacchi), e gli piacerebbe meno quello di Torino. Dal conte di Cavour a Bettega, passando per l’Avvocato, mai ci fu grande feeling tra Gianni e la città sabauda. Ma per tutta la vita viaggiò su Fiat. Non l’ultima notte, ma l’auto non era sua. Gli sarebbe piaciuto Allegri per quel suo non prendere troppo sul serio nulla, nemmeno il calcio, e perché non ha schemi fissi. Ma più di ogni squadra gli sarebbe piaciuta l’Atalanta, da lui definita mirabellissima anche quando non andava in Champions. Avrebbe invitato al club del Giovedì Gasperini, sorvolando sulla sua torinesità e ignorando che mangia poco e beve poco. Gli avrebbe rimproverato, oggi, la scarsa presenza di italiani ma della squadra avrebbe esaltato, citando il suo tripallico Colleoni, quello spirto guerrier ch’entro le rugge, nonché l’accentuata tendenza alla marcatura a uomo. Avrebbe ignorato, boicottato se preferite, iPad, sms, Facebook, palmari e diavolerie del genere. Già non usava il computer («ti cambia le parole in testa»). Tollererebbe forse i selfie, ma facendo linguacce o corna. Quando allo stadio gli gridavano “Brera, sei grande” rispondeva in modo non oxfordiano su quel che può accadere vicino ai forti. Non gli piacerebbe questo governo giallo-rousseau. Di Rousseau, avrebbe detto, conosco solo Jean-Jacques, e l’ho pure letto: “Discorso sull’origine e i fondamenti delle diseguaglianze tra gli uomini”, “Contratto sociale”. Molto meno gli sarebbe piaciuto il governo precedente. Ma non era stato lui a parlare di Padania prima di Bossi? Sì, ma in un altro modo. Lui che era nato povero e aveva studiato non avrebbe sopportato la mancanza di cultura di Di Maio, il disprezzo per la cultura, e di molto altro, di Salvini. Non gli sarebbe piaciuto vedere le piazze del sud, da Rosarno a Napoli, osannanti Salvini, che contro il sud aveva detto di tutto di più. E avrebbe ripiazzato il suo “che se tu fiderai nell’italiani sempre aurai delusioni”, che Guicciardini non ha mai scritto, ma Brera l’ha usato tante volte che ormai è come se. Gli sarebbe piaciuto Camilleri, per la fierezza nell’uso del suo dialetto e perché accanitissimo fumatore. Un coup de coeur per la Sicilia (Giovanni Verga) Brera l’ha sempre avuto. Gli sarebbe piaciuto Tortu (atletica primo amore) e ispirato dal cognome sardo l’avrebbe forse paragonato a un cavallino berbero. Gli sarebbe piaciuto Messi per le doti balistiche e poi perché da Maradona in poi (senza dimenticare che voleva Fotia in Nazionale) i piccolini di talento erano la dimostrazione che a calcio possono giocare tutti. Non avrebbe scritto una riga, per opposti motivi, di basket e volley. Non avrebbe scritto una riga sul caso Inter-Maurito-Wanda, almeno credo. Se sì, con toni più grevi che gravi. Non gli sarebbe piaciuto Neymar, per cui abatino sarebbe già un complimento, e avrebbe creato un neologismo tra tuffatore e truffatore. Gli piacerebbe sapere che nella sala di sinistra del Riccione c’è ancora al muro un quadro che lo rappresenta seduto coi suoi amici. Di quando era vivo è rimasto il Cozzi, che era un ragazzo tra i tavoli e adesso ha i capelli grigi, ma è sempre in gamba e il pesce è buono. E nessuno si scandalizza più se vede in tavola una bottiglia di rosso. I suoi cuochi sono tutti morti: Giuliano Metalli, Franco Colombani, Mario Musoni, Alfredo Valli, Gualtiero Marchesi, gli ultimi due nati a San Zenone. Valli, per 16 anni chef al Biffi Scala, quando usciva l’ultimo soufflé al mandarino si sedeva al tavolo di Brera e si giocava a carte San Zenone-Resto del mondo, vittima preferita Mario Soldati, o chi capitava. I suoi vini sono vivi: il Barbacarlo di Maga, il Barbaresco di Oddero. A Brera, cacciatore e mangiatore di carne, non piacerebbero i vegani e ne scriverebbe ai limiti della querela, o della tempesta mediatica. Infine, Brera sarebbe andato al funerale di Gimondi, il suo Nuvola Rossa. Anche se non gli piaceva andare ai funerali e preferiva piantare un albero per ogni amico che moriva. Oggi sarebbe un bosco, e oggi come quel giorno di dicembre del ’92 gli sia lieve la terra.

Il racconto di Gianni Brera per immagini, voci, testimonianze, spezzoni in bianco e nero della Rai d’epoca, che innescano la curiosità di andarne a cercare altri. Nella vastità della vicenda breriana è una scalata temeraria ma che trova ampio senso dentro questo C’era una volta Gioânn, domani in prima tv su Sky Arte, alle 21.15. Angelo Carotenuto e Malina De Carlo hanno letto, ripassato, girato e incontrato decine di personaggi che hanno ruotato a varia gradazione intorno a Brera, dentro anni, decenni irripetibili: con andamento quasi jazzato, scansionando gli argomenti – vino, cibo, giornalismo, letteratura, donne, calcio, eresie calcistiche e anche politica e visione del mondo, o del particolare scampolo di terra d’origine – il quadro si riempie via via, in un misto che lascia davvero curiosi ancora, immaginando quante altre storie piccole o enormi hanno costellato quell’esistenza. Gianni Mura, Mario Sconcerti, Andrea Maietti, il figlio Franco e molti altri, calciatori come Bruno Conti che rievoca il suo andare a cercare su un’enciclopedia il significato del termine Pelasgio con cui Brera aveva inanellato l’ennesimo dei soprannomi appiccicati sulla gente di calcio. Ma anche il “Basletta” – nel senso del mento pronunciato – Giovanni Lodetti, che rievoca gli incontri con quella figura clamorosa che stava dalla parte di quelli che guardavano e scrivevano. Per non dire dei neologismi, ricercati e popolari, da presa immediata nonché perenne. E le controversie, la somma eresia sacchiana che lascia senza parole uno dei massimi prestigiatori delle medesime, le polemiche con i grandi scrittori “non-sport”: e le passioni che lo trascinavano dentro qualsiasi anfratto di vita, storia, esistenze lui ritenesse degno. Il tutto mentre una Lettera 22 dell’Olivetti troneggia all’inizio, durante e alla fine del racconto: percossa da milioni di colpi di polpastrello negli anni e simbolo definitivo di una storia che si potrebbe raccontare mille volte e ogni volta sarebbe più corposa della precedente.

E Bruno Conti cercò Pelasgio sul dizionario. Il documentario. di Antonio Dipollina.

Il racconto di Gianni Brera per immagini, voci, testimonianze, spezzoni in bianco e nero della Rai d’epoca, che innescano la curiosità di andarne a cercare altri. Nella vastità della vicenda breriana è una scalata temeraria ma che trova ampio senso dentro questo C’era una volta Gioânn, domani in prima tv su Sky Arte, alle 21.15. Angelo Carotenuto e Malina De Carlo hanno letto, ripassato, girato e incontrato decine di personaggi che hanno ruotato a varia gradazione intorno a Brera, dentro anni, decenni irripetibili: con andamento quasi jazzato, scansionando gli argomenti – vino, cibo, giornalismo, letteratura, donne, calcio, eresie calcistiche e anche politica e visione del mondo, o del particolare scampolo di terra d’origine – il quadro si riempie via via, in un misto che lascia davvero curiosi ancora, immaginando quante altre storie piccole o enormi hanno costellato quell’esistenza. Gianni Mura, Mario Sconcerti, Andrea Maietti, il figlio Franco e molti altri, calciatori come Bruno Conti che rievoca il suo andare a cercare su un’enciclopedia il significato del termine Pelasgio con cui Brera aveva inanellato l’ennesimo dei soprannomi appiccicati sulla gente di calcio. Ma anche il “Basletta” – nel senso del mento pronunciato – Giovanni Lodetti, che rievoca gli incontri con quella figura clamorosa che stava dalla parte di quelli che guardavano e scrivevano. Per non dire dei neologismi, ricercati e popolari, da presa immediata nonché perenne. E le controversie, la somma eresia sacchiana che lascia senza parole uno dei massimi prestigiatori delle medesime, le polemiche con i grandi scrittori “non-sport”: e le passioni che lo trascinavano dentro qualsiasi anfratto di vita, storia, esistenze lui ritenesse degno. Il tutto mentre una Lettera 22 dell’Olivetti troneggia all’inizio, durante e alla fine del racconto: percossa da milioni di colpi di polpastrello negli anni e simbolo definitivo di una storia che si potrebbe raccontare mille volte e ogni volta sarebbe più corposa della precedente.Il racconto di Gianni Brera per immagini, voci, testimonianze, spezzoni in bianco e nero della Rai d’epoca, che innescano la curiosità di andarne a cercare altri. Nella vastità della vicenda breriana è una scalata temeraria ma che trova ampio senso dentro questo C’era una volta Gioânn, domani in prima tv su Sky Arte, alle 21.15. Angelo Carotenuto e Malina De Carlo hanno letto, ripassato, girato e incontrato decine di personaggi che hanno ruotato a varia gradazione intorno a Brera, dentro anni, decenni irripetibili: con andamento quasi jazzato, scansionando gli argomenti – vino, cibo, giornalismo, letteratura, donne, calcio, eresie calcistiche e anche politica e visione del mondo, o del particolare scampolo di terra d’origine – il quadro si riempie via via, in un misto che lascia davvero curiosi ancora, immaginando quante altre storie piccole o enormi hanno costellato quell’esistenza. Gianni Mura, Mario Sconcerti, Andrea Maietti, il figlio Franco e molti altri, calciatori come Bruno Conti che rievoca il suo andare a cercare su un’enciclopedia il significato del termine Pelasgio con cui Brera aveva inanellato l’ennesimo dei soprannomi appiccicati sulla gente di calcio. Ma anche il “Basletta” – nel senso del mento pronunciato – Giovanni Lodetti, che rievoca gli incontri con quella figura clamorosa che stava dalla parte di quelli che guardavano e scrivevano. Per non dire dei neologismi, ricercati e popolari, da presa immediata nonché perenne. E le controversie, la somma eresia sacchiana che lascia senza parole uno dei massimi prestigiatori delle medesime, le polemiche con i grandi scrittori “non-sport”: e le passioni che lo trascinavano dentro qualsiasi anfratto di vita, storia, esistenze lui ritenesse degno. Il tutto mentre una Lettera 22 dell’Olivetti troneggia all’inizio, durante e alla fine del racconto: percossa da milioni di colpi di polpastrello negli anni e simbolo definitivo di una storia che si potrebbe raccontare mille volte e ogni volta sarebbe più corposa della precedente.