Gianni Riotta
Qin Shihuang era l’imperatore cinese più ammirato da Mao Zedong, scelta a prima vista bizzarra visto che fu sì capace di riunificare la Cina nel 221 a. C. ma era anche solito bruciare libri e manoscritti sgraditi e perseguitare i saggi confuciani, condannandone a morte 460, seppelliti vivi. All’imperatore suo crudele maestro di strategia politica Mao dedica una poesia, raccolta nel saggio Cina dello statista americano Henry Kissinger (Mondadori): «Signore, la prego, non calunni l’imperatore Qin Shihuang / Serve ripensare ai roghi dei libri / Il nostro dragone ancestrale, pur morto, vive in spirito / Confucio, pur celebrato / non era nessuno / mentre l’ordine di Qin sopravvive, di era in era». Per comprendere cosa resta dell’eredità del presidente Mao Zedong dobbiamo capire dapprima in che modo la sua rivoluzione si inserisce nella millenaria storia cinese, e in che modo, invece, la contraddice. Mao detestava il culto confuciano della Grande Armonia, il da tong, governare senza sfidare il mondo e le sue potenze, certi del destino celeste di Pechino. Amava la violenza di Qin, unire il Paese senza curarsi di tradizioni o sofferenze dei sudditi. Il ritratto pop di Mao, dipinto da Andy Warhol nel 1973, è stato battuto all’asta per 12 milioni di euro, icona ambigua del XX secolo. La sola carestia seguita alla scriteriata campagna economica del Grande Balzo in avanti, 1958-1962, ha ucciso, secondo le stime degli storici, fino a 45 milioni di esseri umani, assegnando Mao al novero dei grandi dittatori – Stalin, Hitler, Mussolini. Eppure, nei tinelli chic di Manhattan il suo ritratto è segno di stile, fascino ambiguo che a lungo ha confuso gli occidentali: alla sua morte, nel 1976, questo giornale titolò «È morto Mao, l’ultimo dei grandi». È il segno più forte che Mao abbia lasciato ai suoi successori, dal pragmatico Deng Xiaoping a Xi Jinping, che ne duplica l’enorme potere: la Cina non ha conosciuto vergogna internazionale come Russia, Germania, Italia; il tocco di Mao, la sua diplomazia raffinata in apparenza, rude alla radice, ne preservano l’immagine antica di potenza saggia, colta, umana. Il lascito di Mao alla Cina del XXI secolo è dunque quello di armonia con i secoli passati, da Qin Shihuang a noi, pur in palese contraddizione con la fede caotica del teorico della Rivoluzione culturale, che purgò tutti i suoi fedeli, fino al cerebrale Zhou Enlai. La Cina, Mao lo sapeva e lasciò che lo studioso inglese Joseph Needham lo insegnasse per decenni, aveva sempre prevalso in tecnologia, scienza e economia sul mondo occidentale, tranne per la sciagurata, e breve, parentesi della Rivoluzione industriale e dell’imperialismo europeo. Tornare – con la produzione, l’intelligenza artificiale, la tecnologia, il 5G – al centro del pianeta era dunque per Mao destino naturale e, fosse vivo, sorriderebbe serafico (alla Warhol!) vedendo i risultati del boom seguito al suo storico incontro con il presidente americano Richard Nixon nel 1972. Perché il Paese tornasse potenza occorreva abbandonare l’umanesimo di Confucio e impugnare la repressione di Qin. Mao ci riuscì e il suo Partito comunista è l’organizzazione politica contemporanea che vanta i migliori risultati di crescita, stabilità, longevità, mancanza di opposizione e rivali, salvo pochi, coraggiosi e isolati, dissidenti che languono in galera o esilio. Nei 70 anni che portano dalla Cina derelitta e vassalla dell’Urss alla Cina che sfida gli Stati Uniti per l’egemonia globale tornando a stringere i Paesi, vicini e lontani, negli imperiali patti di vassallaggio detti Cintura e Strada (da cui speriamo l’Italia si emancipi dopo la dissennata adesione del governo Conte I), una possibile contraddizione però esiste, e forse avrebbe inquietato Mao, maestro di contraddizioni. La Cina onnipotente non riesce a sedare la rivolta per i diritti civili nella minuscola Hong Kong, a far la pace con i nazionalisti di Taiwan, a governare le sue sterminate masse senza occhiuto spionaggio digitale. Non si seppelliscono più, vivi, i confuciani, ma la minoranza islamica degli uiguri, 10 milioni di cittadini nello Xinjiang, vive circondata dal razzismo, schedata via software, con due milioni, soprattutto uomini, rinchiusi in campi di concentramento. La Cina li accusa di terrorismo, e tale è la sua influenza che nessun leader musulmano osa difendere i correligionari. Durerà? Potranno i cinesi, con in mano un iPhone e non più una povera ciotola di riso, rinunciare in eterno a libertà e diritti umani? L’imperatore Qin Shihuang e Mao ne erano certi, Xi prova a seguirli, ma la storia, severa, li contraddice.