Gli Usa ma anche alcuni Paesi europei si oppongono alla sua introduzione

Nella governance europea la “concorrenza” pesa anche più delle regole di bilancio. Blocca progetti di fusioni industriali transfrontaliere, detta le regole nella gestione delle crisi bancarie, ferma (o almeno complica parecchio) i tentativi di aiuti di stato. Ma si ferma sulla soglia del fisco, che continua a non avere armi contro le distorsioni prodotte dai maxi-fatturati dei giganti digitali intoccabili dalla tassazione nei paesi dove i ricavi si producono. Il tema, rilanciato dal messaggio del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a Cernobbio ha occupato la primissima linea nelle priorità dell’agenda europea per la legislatura che si avvia. Da Romano Prodi, che da ex presidente della Commissione europea conosce bene il freno tirato dal vincolo dell’unanimità sulle regole fiscali, a Bruno Le Maire, il ministro dell’Economia francese da sempre sponsor di una web tax sovranazionale e ora anche di una moneta digitale pubblica, il bilancio è netto: per la Ue è un “fallimento” se 4 Paesi riescono a bloccare la volontà degli altri 24 lasciando aperto un buco fiscale che inquina il funzionamento dei mercati e complica la vita dei conti pubblici. La via per superare questo “fallimento”, però, è ancora da individuare. In sede Ocse, dove fin qui la resistenza è stata alzata in particolare dagli Stati Uniti (Paese che ospita tutti i principali colossi del web), la proposta finirà sui tavoli del summit in programma a Washington il 17 ottobre. Nella Ue i “no” sono arrivati da Irlanda, Svezia, Danimarca ed Estonia. Il maggior coordinamento delle politiche fiscali che anche al Forum Ambrosetti di Cernobbio è stato rilanciato come mossa indispensabile per far giocare alla Ue un ruolo più forte non potrà non passare anche da qui. Anche perché la via alternativa è quella nazionale, inefficace per definizione in un contesto del genere. Spagna e Francia l’hanno comunque avviata (Amazon ha appena alzato in Francia le commissioni agli operatori). L’Italia l’ha appena rilanciata nel programma della neonata alleanza Pd-M5S anche come strumento per aiutare la costruzione della prossima manovra: «Occorre introdurre la web tax per le multinazionali del settore che spostano i profitti e le informazioni in Paesi differenti da quelli in cui vendono i loro prodotti», si legge al punto 25 del testo definitivo. Ma c’è un problema. Di web tax si sono già occupate le ultime due leggi di bilancio, ma i decreti attuativi non sono mai stati approvati. Le entrate restano quindi teoriche, impalpabili più della stessa economia digitale, ma sono calcolate nei saldi di finanza pubblica. Per il 2020 valgono 600 milioni. Tutti da trovare, come i 150 milioni messi a preventivo per quest’anno.