Quando nel 1996 uscì il libro di Peter Handke Un viaggio d’inverno ai fiumi Danubio, Sava, Morava e Drina, ovvero giustizia per la Serbia, lo choc culturale, oltre che politico, fu enorme. Come poteva, uno degli autori mito del Sessantotto, lo sceneggiatore de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, lo scrittore del fortunato e osannato Prima del calcio di rigore, difendere un dittatore come Slobodan Milosevic, la pulizia etnica, il genocidio, la guerra? Non volendo accettare l’enormità, in molti pensarono all’efficacia della propaganda di Belgrado, la parzialità dei racconti che aveva ascoltato stando solo sul lato del fronte degli aggressori. Una postura che era un’implicita accusa di superficialità, di faciloneria. Al limite il lato snob di un intellettuale abituato a marciare controcorrente. Le sue successive opere e le prese di posizioni pubbliche permisero di correggere quell’opinione: Peter Handke la pensava proprio così. A cominciare dal compendio Appendice estiva a un viaggio d’inverno, uscita nello stesso anno, addirittura indurì il concetto. Disegnando, nel complesso, il ritratto di un popolo “celeste”, vessato dalla storia, fiero oppositore del liberismo imperante di matrice occidentale e perciò diventato paria della comunità internazionale. Faceva così proprio, Handke, tutto l’armamentario dell’epica serba, dalla “gloriosa sconfitta” di Kosovo Polje del 1389 in poi, condito dalla perenne richiesta di un risarcimento per aver fermato, a beneficio del resto d’Europa, l’avanzata ottomana, aver resistito alle potenze occupatrici, prima l’impero austro-ungarico, poi il Terzo Reich. In nome della fierezza di un popolo di contadini-guerrieri che non si sottomettono ma alzano la testa in difesa della patria, dei principi e di una diversità rivendicata con orgoglio. Arrivò a proporre un paragone con il genocidio degli ebrei per un’arringa sempre più veemente che costrinse alcuni suoi colleghi a liquidarlo con frasi lapidarie. Salman Rushdie nel 1999: «Ha vinto il premio di scemo internazionale dell’anno». Susan Sontag: «Molte persone non leggeranno più i suoi libri». Jonathan Little: «Potrebbe essere un artista fantastico ma come essere umano è il mio nemico, è uno stronzo». Persino un famoso scrittore serbo, Bora Cosic, sostenne che gli «faceva schifo» la difesa dell’austriaco e che il suo Racconto di viaggio era «un inganno a danno degli stessi serbi». Un coro a cui si è accodata ieri Jennifer Egan, presidente del Pen American a commento della decisione di assegnare ad Handke il Nobel per la letteratura: «Siamo sconvolti per la scelta di uno scrittore che ha usato in passato la sua posizione per minare la verità storica e offrire aiuto ai perpetratori del genocidio. Rifiutiamo l’idea che un autore che ha ripetutamente messo in dubbio la realtà di crimini di guerra ben documentati possa essere celebrato per il suo impegno letterario». Il riferimento palese è a Srebrenica, la città a ridosso della Drina dove nel luglio del 1995 le truppe del generale Ratko Mladic e del capo politico dei serbi di Bosnia Radovan Karadzic trucidarono in tre giorni dalle 8 alle 12 mila persone, la carneficina più grave in Europa dalla Seconda guerra mondiale. Per Handke, semplicemente un «massacro di soldati musulmani», dunque un atto come tanti altri e comprensibile in tempo di guerra. Munira Subasic, presidente dell’associazione Madri di Srebrenica, ha già annunciato che chiederà all’Accademia di Stoccolma di ritirare il riconoscimento. In passato il neo-Nobel aveva bollato le “Madri” come «gruppo organizzato e attivato per far colpo sul pubblico internazionale». L’interesse di Peter Handke per i Balcani ha anche radici familiari. La madre era di origine slovena e si suicidò quando lui aveva 29 anni. Agli esordi dell’implosione jugoslava non esitò a indicare la Germania, l’Austria e il Vaticano come i veri responsabili della guerra per aver appoggiato le secessioni di Slovenia e Croazia. All’opposto aveva considerato Slobodan Milosevic come una vittima di quella cospirazione. Non aveva alzato la propria voce per l’urbicidio di Sarajevo, tantomeno per la pulizia etnica in Kosovo. Salvo scagliarsi contro i bombardamenti della Nato su Belgrado che posero fine all’eccidio. La vicinanza con Milosevic continuò anche dopo l’arresto del dittatore. Gli fece visita nel carcere dell’Aja dove era stato rinchiuso con l’accusa di crimini di guerra. E alla sua morte, nel 2006, in occasione del funerale tenne un discorso pubblico. Nel suo buen retiro francese ad Anais Ginori che l’ha intervistato per Repubblica e incalzato su queste uscite imbarazzanti, Peter Handke, 76 anni, ha risposto: «Le mie non erano posizioni politiche, sono uno scrittore, non un giornalista. E parlo da scrittore». Come se le parole “da scrittore” fossero sciolte da ogni responsabilità.