Giordano Stabile

Le terre del Rojava passano di mano a una velocità impressionante. La decisione di Donald Trump, nella notte fra sabato e domenica, di ritirare «il più presto possibile» i mille militari statunitensi ancora nella regione ha scatenato una corsa di tutte le forze in campo. Senza più lo scudo americano, privi di mezzi anti-aerei, per i guerriglieri curdi non c’è scampo. E allora hanno deciso di concentrare le loro forze alle estremità Ovest e Est del fronte. E di chiedere aiuto ai russi e al governo di Damasco. Bashar al-Assad aveva già ammassato truppe verso l’Eufrate ed è ora pronto ad attraversarlo «entro 48 ore» per arrivare a Manbij e Kobane prima dei turchi. Anche perché l’aviazione americana «non ostacolerà la manovra». Per il raiss è un successo insperato, per i curdi si tratta di sopravvivere. La parte centrale del fronte, fra Tall Abyad e Ras al-Ayn è al collasso. Nonostante i contrattacchi notturni le due cittadine sono in mano a esercito di Ankara e miliziani arabi alleati. Nel mezzo è stato aperto un nuovo varco, e i combattenti dell’Esercito nazionale siriano hanno raggiunto l’autostrada M4, che corre a 30-40 chilometri di profondità. Lo stesso presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha allargato la «fascia di sicurezza» a 35 chilometri, per includere la principale via di comunicazione. Avanguardie dei miliziani sono arrivate fino ad Ayn Issa, ancora più in giù, sulla strada che da Tall Abyad porta a Raqqa. I limiti posti all’inizio dell’operazione «Fonte di pace», nella telefonata di domenica 6 ottobre fra Trump e Erdogan, non hanno più senso. Il capo della Casa Bianca, dopo che venerdì sera i soldati statunitensi erano finiti sotto il fuoco dell’artiglieria turca, ha capito che la situazione non era più sostenibile, a meno di un confronto armato con la Turchia, impensabile. E ha deciso di togliere il disturbo. Ieri funzionari hanno ammesso che la situazione «si sta deteriorando con grande rapidità», perché turchi e alleati «possono isolare le basi americane» e Washington non controlla più «le vie di comunicazione» e neppure «i jet turchi sopra le teste dei soldati«. Poi il segretario alla Difesa Mark Esper ha spiegato con una certa brutalità che «Erdogan ci ha informato che stava arrivando: ci ha informato, non ci ha chiesto il permesso». E non c’era modo di «fermare 15 mila turchi che avanzano verso Sud». Una determinazione confermata ieri dallo stesso Erdogan. «Sapevamo – ha spiegato – che dopo aver lanciato la nostra operazione avremmo dovuto affrontare la minaccia di sanzioni o di embargo sulla vendita di armi. Quelli che pensano di farci ritirare con questa minacce si sbagliano di grosso». I primi ad averlo capito sono i curdi. Senza la leadership americana i Paesi europei non possono impensierire la Turchia e tanto meno proteggere i curdi sul terreno. Per questo il Pyd, il braccio politico delle Ypg, ha riaperto subito i canali con il governo di Damasco. Ieri una delegazione è arrivata nella base russa di Hmeimim e c’è stato un primo accordo. L’esercito siriano, preceduto dalla polizia militare di Mosca, sarà dispiegato a Manbij e a Kobane, la principale città curda nel Rojava, ormai tagliata fuori dai territori più a Est. Le perdite fra i guerriglieri sono troppo elevate. Il ministero della Difesa turca sostiene di aver eliminato 525 «terroristi», mentre le vittime civili sono almeno 60, 130 mila gli sfollati. La cessione di Manbij, che i curdi hanno strappato all’Isis nell’agosto del 2016, è dolorosa ma non troppo. La città è a maggioranza araba, si trova a Ovest dell’Eufrate ed era indifendibile fin dall’inizio. Perdere Kobane, città martire della lotta all’Isis, è un altro discorso, significa la fine del sogno di indipendenza. Ma sempre meglio finire nelle grinfie di Assad, con assicurazioni da parte dei russi, che sotto i talloni di miliziani infiltrati da jihadisti di Al-Qaeda. Come riassume il decano degli analisti mediorientali, Joshua Landis, «l’amara verità è che Putin è oggi l’unico statista in grado di disinnescare i conflitti in Medio Oriente, in Siria come nel Golfo. La politica estera americana è collassata con Trump, una decisione sbagliata dopo l’altra. Porta soltanto caos».