Giuliano Ferrara

Menti illuminate, critici indipendenti e altri osservatori americani, scrivendo anche sui mainstrem media o nemici del popolo, come li chiama Trump, affermano che il processo parlamentare di impeachment intrapreso dalla maggioranza democratica della Camera è un errore. Si tratta, affare delicatissimo, di destituire un presidente eletto dal popolo, e per un disinvolto Wall Street Journal non ci sono gli elementi, non c’è la pistola fumante, detto con una malaccorta sicurezza all’indomani della pubblicazione della trascrizione della telefonata di Trump a Zelensky del 25 luglio scorso e dopo la pubblicazione del rapporto dell’informatore sui fatti e sul tentativo di coprirli e sottrarli alle sedi istituzionali deputate a giudicarli o cover up. Ma anche tra i liberal si dice che una cosa giusta può non essere saggia. Le prove del tradimento ci sono ma non c’è una maggioranza del Senato per convalidarle in un processo politico, anche dopo che la Camera abbia formalizzato la proposta di rimozione del presidente dalla carica: dunque Trump avrebbe mesi intensi di campagna elettorale per fare la vittima di un’operazione politicante dell’opposizione, si considererebbe pienamente esonerato dalle accuse, che già adesso giudica beffardo una barzelletta, e verrebbe rieletto a furor di popolo nel novembre del 2020, l’anno prossimo. Si aggiunge a contorno che i democratici approfondirebbero il solco della divisione tribale che percorre il paese e sarebbero incapacitati a fare campagna sui veri problemi, i “veri problemi”, che affliggono economia e società. Il tradimento della Costituzione e del paese da parte di un presidente che chiede a un capo di stato estero, da lui dipendente per aiuti militari sospesi senza ragione una settimana prima, di fottere il proprio rivale politico d’opposizione, con un’indagine fatta in collaborazione con il suo ministro della Giustizia e con il suo avvocato privato, risulterebbe una gigantesca distrazione. Distrazione. Per capire meglio di che parliamo, ecco un elenco di date e fatti, tutta roba fresca, recente. Il 18 luglio scorso, senza motivazioni, Trump dà ordine di sospendere gli aiuti militari all’Ucraina. Il 25 luglio, una settimana dopo, telefona a Zelensky per congratularsi del risultato elettorale del suo partito e in un contesto chiaramente e univocamente allusivo ai rapporti bilaterali fra i due paesi gli chiede di fargli il favore di indagare sul figlio di Joe Biden, suo rivale in campagna per il 2020, e di raccordarsi con l’Attorney general degli Stati Uniti, autorità di governo con uno statuto di indipendenza da lui nominata, e con il suo avvocato personale Rudy Giuliani, già operativo nella corrotta discarica del potere a Kiev, e ben connesso con un molto discusso procuratore ucraino coinvolto nella affaire, sempre con l’obiettivo di incastrare il rivale del suo datore di lavoro. Il 29 agosto, dopo un mese caratterizzato dalla denuncia riservata del whistleblower che fa la sua corsa secondo i canoni e le procedure della legge, ma in mezzo a tentativi denunciati di insabbiamento e nascondimento della documentazione alle autorità legali del Congresso, viene fatto fuori il procuratore connesso a Giuliani. L’operazio – ne Rudy fallisce, in sostanza. Il 9 settembre, dieci giorni dopo, il Congresso viene informato dalle agenzie preposte (la Nsa), con l’autorizzazione dell’Attorney general, dell’esistenza del rapporto di denuncia. Il 12 settembre, tre giorni dopo, viene sbloccato il pacchetto degli aiuti militari. Il 24 settembre, a carte ancora parzialmente coperte per il pubblico, i democratici dichiarano aperta l’indagine per l’impeachment. Il 25, il giorno dopo, è pubblicata la trascrizione della telefonata incriminata nel rapporto. Il giorno dopo ancora, il 26 settembre, l’altro ieri, è pubblicato il rapporto del whistleblower con la menzione di fonti anonime ma ufficiali alle origini della denuncia e la circostanziata messa a fuoco del tentato co – ver up da parte della Casa Bianca. La sequenza dei fatti e la loro nuda realtà è devastante per il presidente, e non solo per lui. Certo, un’indagine parlamentare e un’istruzione conformi devono approfondire gli elementi probanti, focalizzare il contesto, ascoltare gli elementi a discarico della difesa (dire che un’accusa è “una barzelletta” in un giusto processo non basta), escutere come testimoni l’informatore e le sue fonti ufficiali, e molti altri soggetti della storia, e fare tutto questo nella legalità procedurale, che garantisce sia il privilegio dell’esecutivo sia le prerogative di chi ne denuncia le eventuali malefatte ai danni della Costituzione e della legge. Sta di fatto che il numero uno dell’intelligence, che era stato appena messo lì da Trump in sostituzione del predecessore, ha detto sotto giuramento al Congresso che l’informa – tore si è comportato in buona fede e ha fatto la cosa giusta secondo ciò che le regole sulla denuncia prescrivono ai funzionari dell’amministrazione a ogni livello. Ma si tratta comunque di un processo politico nelle forme dell’accertamento dibattimentale legale. La Costituzione americana lo prescrive come un dovere, in certi casi, casi tipici come questo, e stabilisce che non si annulla un’elezione con la rimozione del presidente, perché al suo posto va il vice eletto con lui nello stesso ticket, non il capo dell’opposizione. Per non parlare del fatto che anche il Congresso è eletto dal popolo e non si può annullare la sua prerogativa di accertare fatti rilevanti relativi all’idonei – tà del presidente a restare in carica. Se questo è il quadro, per una volta si può dire che ciò che è giusto è anche saggio, e non ci sono alternative, a meno di non annullare il fondamento su cui si regge la democrazia americana. Trump ha portato una lunga e poderosa sfida al suo paese e al mondo. Posta in gioco: la natura del potere. E’ un’investitura secondo regole o un plebiscito che divora ogni regola? Questa è l’es – senza della provocazione o rivoluzione populista contro le cosiddette élite, che per il vero tre anni fa conservarono tre milioni di voti di vantaggio nel voto del popolo, pur soccombendo nel conteggio decisivo e legittimo del collegio elettorale, stato per stato. Dall’esito finale, legale e politico, di questo processo, che da questo punto di vista i nostri mainstream media seguono con qualche strana trascuratezza o svogliatezza, dipende anche la nostra storia, in larga misura. Se il Senato e il popolo elettore si volteranno dall’altra parte rispetto ai fatti, saranno giorni duri per la democrazia mondiale. Una volta scanzonati titolammo, per le ripercussioni dell’impeachment di Clinton nel Monicagate: “Wall Street appesa a un pompino”. Ora il mondo intero è appeso a una telefonata, meno sexy ma altrettanto eccitante.