Giuseppe Salvaggiulo
Per una campagna elettorale abortita al Papeete Beach, un’altra comincia con toni non meno pirotecnici. Il 7 ottobre novemila magistrati eleggeranno due membri del Csm, sostituti dei dimissionari coinvolti nello scandalo sulle nomine, definito «sconcertante» dal capo dello Stato Sergio Mattarella. Ufficialmente i 16 candidati sono fuori dal gioco delle correnti, come richiesto dal sindacato interno, l’Anm. In realtà le correnti non sono sparite. Basta girare in questi giorni nei palazzi di giustizia dove si svolgono i primi dibattiti. A Torino sono volati gli stracci, quando dai massimi sistemi si è scesi alla carne viva del rapporto con le correnti. Il casus belli è la scelta di Paolo Criscuoli, esponente di Magistratura Indipendente coinvolto nel «mercato delle nomine» e perciò sotto processo disciplinare, di rientrare al Csm dopo due mesi di autosospensione. È stata la risposta interlocutoria di Antonio D’Amato, procuratore aggiunto a Santa Maria Capua Vetere e unico tra i candidati a essere iscritto alla stessa Magistratura Indipendente, a scatenare la rissa. «Prendi le distanze dalla tua corrente o no?», lo incalzava Fabrizio Vanorio, pm a Napoli e candidato progressista di Area. «No, ma la mia candidatura è totalmente autonoma», rispondeva D’Amato. «Tanto autonoma che partecipi a cene elettorali organizzate dalla tua corrente», l’affondo di Tiziana Siciliano, procuratore aggiunto a Milano (sua la commovente requisitoria nel processo sul caso dj Fabo). Gelo in sala. E D’Amato, napoletano dal sangue caldo: «Di cene elettorali proprio tu parli, che da due mesi ne fai a Milano con Fabio Roia (ex membro del Csm, esponente di Unicost, ndr)». «Ti sfido a dimostrarlo». «Mi ha tirato un colpo basso», inveiva D’Amato lasciando la sala, mentre i suoi sostenitori accusavano la Siciliano di aver «istruito un processo proletario degno dei Khmer Rossi». E via di seguito, in un clima da corrida che induceva Francesco De Falco, pm napoletano e candidato di Unicost, a premettere – non richiesto – che «io dal 1999 non vedo e non sento Cosimo Ferri», magistrato e deputato Pd, protagonista delle trame sulle nomine. E Alessandro Milita, anch’egli procuratore aggiunto a Santa Maria Capua Vetere e candidato indipendente (ma come la Siciliano, di idee vicine a quelle di Area) a ipotizzare per Criscuoli «un’indagine per truffa ai danni dello Stato, per aver preso lo stipendio al Csm senza lavorare». Per nulla pentita, la Siciliano ha dato il bis a Milano: «Io sono davvero indipendente, nessuno mi organizza aperitivi e cene elettorali. Qui c’è più di qualcuno che si dice indipendente ma ha alle spalle correnti che lo promuovono in maniera occulta». Costringendo tutti a un pubblico esame del sangue correntizio. D’Amato è l’unico di Magistratura Indipendente, la corrente vincitrice alle ultime elezioni ma più colpita dallo scandalo. Si definisce «né ferriano né antiferriano». L’anno scorso, candidato in pectore al Csm, fu scavalcato in extremis da un fedelissimo di Ferri. La sua campagna è tutta sull’esaltazione del «magistrato moderato e senza volto» contro «quelli che cercano il protagonismo mediatico in funzione salvifica». Bersaglio Nino Di Matteo, pm palermitano del processo Stato-mafia. Candidato da Autonomia e Indipendenza (la corrente di Piercamillo Davigo, ma in questo caso soprattutto di Sebastiano Ardita), ha esordito a Milano invocando «la resistenza alla strisciante volontà degli altri poteri, legali e illegali, di ridurci a squallidi burocrati». Di Matteo è il grande favorito per notorietà mediatica, consenso tra le giovani toghe (ormai il 30% del totale) e profilo anti-sistema. Però non ha una base di consenso territoriale (la Direzione nazionale antimafia ha pochi magistrati), finora ha fatto poco proselitismo e la sua sovraesposizione politica (il M5S lo voleva ministro) risulta indigesta, soprattutto ai giudici di merito. D’Amato e Di Matteo sono candidati unici delle rispettive correnti, enorme vantaggio in un sistema uninominale maggioritario. Unicost, corrente centrista pure colpita dalle intercettazioni (è quella di Luca Palamara e di due membri del Csm dimissionari) ha due candidati: il pm napoletano Francesco De Falco e il procuratore di Pisa Alessandro Crini. Area, la corrente progressista, confermandosi la meno irregimentata (o «più tafazziana», come dice qualcuno), ha rispettato l’impegno a non «gestire» i candidati. La conseguenza è che ce ne sono tre direttamente riferibili e altrettanti indirettamente, con inevitabile e deleteria dispersione di voti. I più forti paiono Anna Canepa, volto storico di Magistratura Democratica e pioniera dell’antimafia al Nord, e Fabrizio Vanorio, già candidato sconfitto alle primarie l’anno scorso, in un conflitto interno non sopito che alimenta criticando «la nostra eccessiva vicinanza ai gruppi di potere». Molti candidati, consenso balcanizzato, indipendenti che succhiano consensi alle correnti: sarà guerra all’ultimo voto. E dunque le correnti si muovono: porta a porta, chat promozionali con indicazioni di voto, cene (Magistratura Indipendente), «light lunch» (Unicost), tour elettorali di gruppo nei tribunali. Tutto, peraltro, non solo lecito ma anche fisiologico. Ma di questi tempi è sale sulle ferite aperte dai trojan. Il risultato elettorale ridefinirà gli equilibri di potere in un Csm nel quale si sta consumando un ribaltone non dissimile da quello parlamentare. Autonomia e Indipendenza e Area, soccombenti nelle urne un anno fa, si ritrovano in maggioranza. Proprio come M5S e Pd. Il che avrà effetti sulle nomine più delicate: Procuratore generale di Cassazione, Brescia, Torino. E Roma, la madre di tutte le nomine. Dove i giochi si sono riaperti e si profilano terze, se non quarte, vie.