Giuseppe Sarcina
La svolta di Twitter divide i partiti americani e innesca una discussione di interesse mondiale. Ieri Jack Dorsey, 42 anni, fondatore e amministratore delegato della società, ha annunciato che la piattaforma non ospiterà più pubblicità politica a partire dal prossimo 22 novembre. La rinuncia riguarda tutti i Paesi del mondo, ma la decisione è stata presa sulla spinta delle polemiche negli Stati Uniti, nel mezzo della campagna per le primarie democratiche e in vista delle presidenziali nel 2020. Scrive Dorsey, naturalmente sul suo account Twitter: «La pubblicità su Internet è incredibilmente potente e molto efficace per gli inserzionisti commerciali; ma questo potere comporta rischi significativi per la politica, dove può essere usato per influenzare voti che toccano la vita di milioni di persone». Brad Parscale, 43 anni, capo della campagna, di Donald Trump, è duro: «Una scelta davvero molto stupida». E ancora: «Questoèl’ennesimo tentativo di silenziareiconservatori». Potrebbe sembrare un’affermazione paradossale, visto che il suo capo, il presidente americano, detta quotidianamente l’agenda al Paese e al mondo con i tweet, seguiti da 66 milioni di follower. In realtà «i conservatori», sotto la guida dello stesso Parscale, sono più avanti di tutti gli altri avversari democratici nella dimensione digitale. La strategia tiene insieme diversi canali di comunicazione che parte dall’account di Trump, passa dai gruppi di fan, fino agli spot a pagamento mirati su singoli segmenti dell’elettorato. Il problema, però, è come garantire all’opinione pubblica che la propaganda, repubblicana o democratica che sia, non contenga palesi falsità sugli avversari, incitamenti all’odio e così via. Il tema è da mesi al centro del confronto. E finora il network più investito dalle polemiche è stato Facebook, non Twitter. Il 24 ottobre scorso Mark Zuckerberg si è trovato in grande imbarazzo in un’audizione al Congresso, specie quando la deputata radical Alexandria Ocasio-Cortez gli ha chiesto se Facebook fosse «in grado di controllare la veridicità delle inserzioni pubblicitarie a pagamento». Risposta: «Riteniamo sia giusto tutelare la libertà di espressione di tutti, politici compresi. Sarà poi il pubblico a giudicare». «Quindi – ha continuato Ocasio-Cortez – io potrei fare uno spot su Facebook sostenendo che i repubblicani appoggiano il mio piano sull’ambiente?». Jack Dorsey si è inserito in questa disputa, con una mossa che appare anche un’operazione di marketing. Ha ottenuto, però, solo un moderato consenso tra i democratici. Ocasio-Cortez ha osservato che «se un social non è in grado di garantire il fact-checking degli spot politici, allora fa bene a rinunciare». Joe Biden, l’ex vicepresidente candidato nelle primarie per le presidenziali, ha notato che «è un peccato dover fare a meno di questo strumento, perché non si è in grado di gestirlo in modo corretto». E Zuckerberg? Il fondatore di Facebook non si smuove. Ieri ha saputo di Twitter mentre stava facendo una «conference call» con gli investitori. Questa la sua reazione: «Anche io avevo pensato di togliere gli spot politici, ma è difficile stabilire dove tirare la linea. Vogliamo veramente bloccare le inserzioni su temi importanti come il climate change o l’avanzamento sociale delle donne?». E aggiunge che non è una questione di soldi: «Ci aspettiamo che per il prossimo anno i ricavi dalle inserzioni politiche siano pari allo 0,5% del nostro fatturato». Per mettere le cose in chiaro: iricavi di Facebook si aggirano sui 66 miliardi di dollari: la politica, dunque, rende sui 330 milioni di dollari l’anno.