Giuseppe Sarcina
Domenica mattina, l’ultimo strappo. Solo il segretario di Stato Mike Pompeo fa il giro dei talk show per provare a spiegare perché Donald Trump avesse invitato i leader dei talebani a Camp David, salvo poi annullare «il negoziato di pace». John Bolton, invece, è sparito. In quel momento il consigliere per la sicurezza nazionale di fatto è già fuori dall’Amministrazione. Nei giorni scorsi era andato allo scontro frontale con il presidente: non si possono ospitare i terroristi o gli amici dei terroristi sul suolo americano, per di più proprio alla vigilia dell’11 settembre.
Per una volta Bolton poteva contare sull’appoggio di una larga parte dei repubblicani, di molti democratici e, per il poco che vale, del vice presidente Mike Pence. Non è servito a nulla. Trump lo ha licenziato ieri mattina con il solito tweet: «Ho informato John Bolton ieri notte (il 9 settembre ndr) che il suo servizio non era più necessario. Sono fortemente in disaccordo con molti dei suoi suggerimenti, così come lo sono altri nell’Amministrazione, e quindi ho chiesto a John di dare le dimissioni, cosa che ha fatto questa mattina (10 settembre ndr). Nominerò un nuovo consigliere la settimana prossima». In realtà un’ora prima del messaggio presidenziale, Bolton stava coordinando una riunione. Subito dopo anche lui si è affacciato su Twitter: «Non sono stato licenziato; ho offerto le mie dimissioni ieri sera e il presidente mi ha risposto: “Parliamone domani”». La sostanza, però, non cambia. La posizione di Bolton vacillava almeno dalla primavera scorsa.
L’ex ambasciatore Onu, 70 anni, era entrato alla Casa Bianca il 9 aprile 2018, prendendo il posto del generale H. R. McMaster che a sua volta aveva sostituito Michael Flynn. Il nuovo assetto di comando ruotava su due personalità: Pompeo al Dipartimento di Stato e Bolton, appunto, a un passo dallo Studio Ovale. Non ha funzionato.
«Sono un patriota, sono “Pro America”, metto gli interessi del Paese al primo posto»: Bolton si era illuso di essere stato scelto dal presidente per questo motivo. Si era illuso di poter imporre una linea intransigente, talvolta fino all’estremismo. Più che un errore, un’ingenuità. In poco più di un anno si è trovato in minoranza su tutti i dossier principali: Nord Corea, Iran, Venezuela, Siria, Russia, Cina e, infine Afghanistan. Il consigliere per la sicurezza nazionale aveva dovuto accantonare le tesi spericolate sostenute, da opinionista, su Fox News: attacchi «preventivi» contro Kim Jong-Un e «i dittatori» di Teheran; misure punitive per colpire gli interessi personali di Vladimir Putin e così via. Una volta al potere si è ritrovato spiazzato dall’imprevedibile ed erratico pragmatismo di Trump. Ma non è solo questo. Ha gestito male anche i pochi casi nei quali si è potuto muovere con autonomia. Ad esempio il Venezuela: per settimane ha tramato con gli oppositori di Nicolas Maduro, senza alcun risultato.