Giuseppe Sarcina

Minneapolis, Dance Theatre, 3 agosto 1983. Prince canta perla prima volta «Purple Rain». Più tardi spiegò così il significato del suo capolavoro più enigmatico (Premio Oscar 1984 per la migliore colonna sonora dell’omonimo film): «Quando il sangue è nel cielo, rosso e blu diventano viola… Purple Rain, la pioggia viola riguarda la fine del mondo e la necessità di stare con la persona che si ama e di lasciare che la vostra fede, il vostro Dio vi guidi attraverso “purple rain”, la pioggia viola». Minneapolis, Target Center, 10 ottobre 2019. Trump scatena i fan con il comizio più virulento da quando è alla Casa Bianca. Un paio di assaggi: «Biden? È stato un buon vicepresidente perché sapeva come leccare il cu… di Obama». «Pelosi? O è stupida o ha perso il lume della ragione. Ah no, c’è una terza possibilità: è disonesta». Che cosa hanno in comune Prince e Trump? La risposta è facile: niente. Ma non per i consiglieri, gli esperti di comunicazione del presidente che hanno ragionato così: siamo a Minneapolis, la città di Prince (nato nel 1958 e morto nel 2016 per un’overdose di oppiacei). E allora che cosa c’è di meglio di «Purple Rain» per introdurre lo show di The Donald? Idea bocciata e contestata dagli eredi della popstar, rappresentati dalla «Prince Estate» che ha diffuso una nota: «Un anno fa il comitato elettorale di Trump si era impegnato a non utilizzare la musica di Prince. La “Prince Estate” non gli darà mai il permesso». A questo punto la disputa potrebbe trasferirsi nei tribunali. In teoria i candidati politici non hanno bisogno dell’autorizzazione degli autori per riprodurne pubblicamente le opere. Basta che paghino i diritti d’autore. Non si sa se il comitato elettorale di Trump abbia versato il dovuto in royalties e non abbia lasciato, invece, scoperto anche questo conto, come ha fatto per altre spese sostenute in sei città. Tuttavia potrebbe non bastare, perché gli avvocati di Trump avevano dato garanzie precise al clan di Prince. Ma c’è un aspetto anche politico forse più interessante. È sempre più lunga la lista dei cantanti e degli artisti che non si vogliono mescolare alle performance elettorali del presidente. Il sito Quartz ha messo insieme una compilation di «no»,raccolti anche su Spotify. Già il 12 ottobre 2016 Mick Jagger postò un video su Twitter per invitare Trump a lasciare perdere «la musica dei Rolling Stones», in particolare la hit «Start me up». Poi ecco Adele e la sua colonna sonora «Skyfall» composta per 007; Pharell Williams, con «Happy», tratto dal film «Despicable Me 2»; i R.E.M. «It’s the end of the World» e infine Neil Young «Rocking in the Free World». Trump ha cercato di capovolgere l’aperta ostilità delle star più popolari, trasformandola in una medaglia: noirappresentiamo la gente che lavora, i dimenticati di questo Paese, non abbiamo nulla a che fare con «Hollywood e lo star system». Anche giovedì scorso, dopo aver sbeffeggiato gli avversari politici, Trump se n’è uscito con questa battuta: «Non ho avuto bisogno di Beyoncé e Jay-Z, non ho avuto bisogno del piccolo Bruce Springsteen per conquistare la vittoria del 2016». E allora non si capisce perché insista, perché gli altoparlanti sparino Elton John, o «We are the Champions» dei Queen, oltre a tutto il resto. In condizioni normali, probabilmente, questa polemica non si sarebbe mai sviluppata. George W. Bush voleva sempre «Born in the Usa» di Springsteen, quando saliva su un palco. Anche se, come si è scoperto dopo, non aveva capito che quella non era esattamente una canzone di retorico patriottismo. Nessuno, però, sollevò la questione. La musicaele parole del Boss emozionavano e costringevano tutti a riflettere. Adesso anche quel filo comune sembra essersi spezzato nell’America trumpiana.