Giuseppe Sarcina
Vladimir Putin muove i tank e la diplomazia. La forza e la politica. Mosca annuncia che le forze russe «pattugliano» i dintorni di Manbij, una delle cittadine al confine tra Siria e Turchia, sulla strada per Kobane, la roccaforte dei curdi. I militari russi prendono posizione nelle basi abbandonate, con una ritirata scomposta, dagli americani per ordine di Donald Trump, ma anche da britannici e francesi. Nello stesso tempo l’inviato speciale di Putin per la Siria, Alexander Lavrentiev fa sapere all’agenzia di stampa Ria Novosti che «il dialogo tra Turchia e Siria è in corso» e aggiunge: «penso che non solo lo scontro turco-siriano non sia nell’interesse di nessuno, ma anche che sarebbe inaccettabile. Per questo, sia chiaro, non lasceremo che le cose arrivino a questo punto». Il presidente russo visita Arabia Saudita ed Emirati Arabi. I più stretti alleati degli Stati Uniti nella regione. Putin mescola affari e politica, dialogando in scioltezza con i sunniti di Riad senza perdere di vista gli sciiti di Teheran; mettendo intorno allo stesso tavolo Recep Tayyip Erdogan e Bashar al Assad, cioè un leader della Nato e un criminale di guerra, secondo gli americani. In ogni caso Europa e Stati Uniti si trovano a inseguire non solo Erdogan, ma anche Putin. L’altro ieri i ministri degli Esteri Ue hanno deciso di bloccare la forniture di armi alla Turchia, ma secondo modi e tempi stabiliti Paese per Paese. In un primo momento Luigi Di Maio aveva detto che lo stop avrebbe riguardato solo le commesse future. Ieri, invece, ha scritto alla Camera dei deputati che «ci sarà un’istruttoria anche dei contratti già in essere». A Washington è in corso un tentativo di rimonta. Ieri Donald Trump si è occupato di altro su Twitter: la campagna elettorale, l’impeachment, la «fraudolenta» Cnn e il Governatore del Kentucky. La manovra allora è condotta dal Segretario di Stato, Mike Pompeo che ieri ha telefonato al ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu. Risultato? Nessuno, per ora. Tra oggi e domani dovrebbe arrivare ad Ankara il vice presidente Mike Pence e in calendario è ancora prevista la visita di Erdogan alla Casa Bianca, il 13 novembre. In realtà l’amministrazione Trump non ha ancora deciso come procedere. L’idea è puntare sulle sanzioni economiche per costringere il leader turco a fermarsi. Ma certamente serve un salto di qualità. Per ora le misure prevedono dazi fino al 50% sull’import di acciaio e il blocco di un accordo commerciale da 100 miliardi di dollari, che per altro è ancora in discussione. È una «grande» punizione, come proclamato da Trump? La Turchia vende agli Stati Uniti beni per circa 10,3 miliardi di dollari (dati 2018). La voce acciaio vale circa 500 milioni di dollari, un po’ meno dell’export di tappeti. Poco più di un graffio per Ankara. Stati Uniti ed Europa possono colpire davvero Erdogan, congelando, per esempio, gli investimenti diretti, specie nel settore automotive, o tagliando fuori le già traballanti banche di Istanbul dalle transazioni in dollari e in euro. Ma per adesso prevale la cautela. E cresce il ruolo di Putin.