Goffredo Buccini

C osa sarà domani? Segregata per censo, tra enclave di ricchi e ghetti di poveri. E percorsa da bande giovanili, suprematisti bianchi di qua, migranti radicalizzati di là. Oppure salvata dai suoi stessi ragazzi, dalla loro street art sui muri di periferia e dalle loro start up nelle officine abbandonate, uniti nella sfida del futuro senza distinzioni di etnia o religione. Quasi in bancarotta eppure seduta sull’oro della sua storia. Sospesa tra una missione universale ritrovata e l’eternità della sua morte sempre annunciata, in bilico tra utopia e distopia. Ecco la Roma 2030 proiettata dal caleidoscopio del sociologo Domenico De Masi in una ricerca previsionale (edita da Einaudi) commissionata dalla Camera di commercio e realizzata secondo il metodo Delphi, importato dall’America nel ’77: doppio questionario incrociatoevotazione prima del rapporto finale su dodici discipline con la collaborazione di altrettanti esperti di chiara fama (qualche nome: da Enrico Giovannini a Innocenzo Cipolletta, da Michel Martone a Giuseppe Roma, da Walter TocciaFrancesco Karrer). Epicentro mondiale dell’ozio creativo per Goethe, lenta e senza energia per Stendhal, ammantata di «divina indifferenza» per Matilde Serao, vivibile solo con «propositi cosmopoliti» per Mommsen, Roma è un infinito ossimoro; è una e trina — metropoli, capitale e città-mondo — e questo volume ce ne restituisce la meravigliosa complessità come esito d’un passato che non passa (per Joyce i romani campavano mostrando ai visitatori «il cadavere della nonna in cantina») e premessa di un futuro appena dietro l’angolo. De Masi, prima di dare la parola ai suoi aruspici 2.0, si diverte ad accompagnarci nella storia e nelle storie. Nell’umiliante confronto tra la sbrindellata Roma capitale dei giorni nostri e quella imperiale, capace di gestire gloriosamente un personale sedici volte più numeroso su un territorio 350 mila volte più grande. Nella (controversa) invenzione medievale del Purgatorio così come sostenuta da Jacques Le Goff: fonte, con le sue indulgenze non gratuite, di accumulazione primitiva della ricchezza ecclesiastica più tardi riversatasi a cornucopia nella città rinascimentale e barocca. Nel mito cavourriano di Roma capitale (unica città italiana che non avesse «memorie esclusivamente municipali») e nel modernista «cozzo delle idee» di Quintino Sella, fino al suo straordinario paradosso: perché la Roma preunitaria serbava una visione universalistica di sé (faro della cristianità) applicabile oggi al mondo globalizzato proprio ove coniugata con l’utopia scientista del ministro sabaudo noto per il pareggio di Bilancio (e, dunque, con la Roma «colonizzata» dai piemontesi). E del resto Roma senza una missione che ne tenga insieme il glamour di ossa millenarie e anime dannatamente pie diventa una summa di povere rogne quotidiane. «Una capitale, tra le tante cose, è o dovrebbe essere un modello per l’intera nazione. In una capitale tutto ciò che è particolare diventa universale», osservava Moravia. Ma a Roma ogni universalità è sospettabile di compromissione col particulare o forse ne è foriera. Si pensi ai suoi atenei, 44. Una cifra enorme e dunque una pletora familistica o forse una miniera culturale a seconda di quale sarà ilrapporto con il lavoro. L’universalistica rinuncia alle Olimpiadi decisa da Virginia Raggi (verso cui De Masi è politicamente piuttosto generoso) ha assai a che fare col particulare dei Cinque Stelle terrorizzati da scandali (poi non mancati in altri dossier) e quella è stata la condanna di Roma almeno fino alle prossime occasioni universalistiche: i 150 anni di Roma capitale e il Giubileo 2025 in cui di sicuro qualcuno attingerà il proprio particulare, ma tant’è. Esagerata per natura, Roma tutto esaspera. La questione abitativa, pur grave sul piano nazionale, diventa epocale, una bomba, con 90 occupazioni di palazzi, 12 mila famiglie in attesa di casa e «ritardi concettuali nella formazione delle graduatorie»: sì, gli italiani sono effettivamente penalizzati e vanno studiati rimedi per evitare altre cento Casal Bruciato con annessa caccia ai rom. Le seconde e terze generazioni di migranti avranno curricula scolastici pari ai ragazzi di famiglie italiane: ottima cosa che, in assenza di ius soli, potrebbe però trasformarne l’entusiasmo in frustrazione, fino a mutare le nostre periferie in nervose banlieue (nemmeno l’ethos fatto di «ironia e accoglienza» citato da uno degli esperti con qualche ottimismo, allora, ci salverebbe). Estesa quanto le altre otto maggiori città italiane messe assieme, Roma contiene due città, quella della grandezza e quella della necessità: la capitale che parla al mondo e la metropoli che dovrebbe parlare al proprio popolo, ma questa duplicità non trova corrispondenza né in termini di finanziamento né di governance. E dunque l’Urbe del 2030 dovrebbe essere duale, governare la «necessità» col potere dei municipi (popolosi come medie città italiane) e la «grandezza» con quello di una città-statooperlomeno di una Roma-Regione padrona del proprio destino (e dei propri quattrini). Il futuro ci aspetta in una mappa uncharted, ignota al di là delle previsioni. Perché alle pagine che immaginano un «flaneur postindustriale» che vada gironzolando felice in una Roma che abbia recuperato «il lusso della pausa, lo scambio gratuito di reciproche simpatie e l’arte sublime dell’ozio creativo» (otium, alla latina) si oppongono, ahinoi, quelle (di scuola Censis) che immaginano «cicli conflittuali» animati da cittadini esasperati: «trasporti e rifiuti possono portareasituazioni di dissenso e di lotta». Insomma il famoso flaneur baudeleriano che voglia tuffare il proprio cuore in una sì grande bellezza dovrebbe, zigzagando tra cassonetti maleolenti, correreaprendere la metro Barberini. Per scoprire che è chiusa: oggi, domani e forse anche nel 2030.