Goffredo De Marchis

«Non siamo il partito di Bandiera rossa, non siamo il partito della patrimoniale. Non ci faremo intrappolare in questa caricatura». Anche se dalla base o dai territori, come si dice, arrivano segnali rassicuranti (poche uscite), il vicesegretario del Pd Andrea Orlando non fa finta di niente. La scissione di Renzi è un danno e gli argomenti che l’ex premier potrà usare contro i suoi ex compagni vengono già radiografati a Largo del Nazareno. Il partito insomma è sotto choc. Deve preparare una reazione. «Noi vogliamo rappresentare il malessere sociale — dice Orlando a Repubblica — ma senza dimenticare i ceti produttivi e il Nord soprattutto». Questa idea del dividersi i compiti, il Pd fa la sinistra e Renzi il centro, va evitata come la peste. Ed è su questo fronte che Nicola Zingaretti sfida la nuova creatura. Dunque, non rientrano Bersani e D’Alema, come invece va ripetendo il transfuga fiorentino. «Questa è una stupidaggine», dice il segretario dem. «Non siamo i Ds e non torneremo ad esserlo — sottolinea Orlando — non c’è più quel mondo e non vogliamo riportarlo in vita. Chi sostiene il contrario mente sapendo di mentire». Il Pd continuerà l’opera di rinnovamento, cercherà di aprirsi magari a partire da un posto simbolico come la carica di presidente, vacante dopo la nomina di Gentiloni a Bruxelles. Zingaretti chiede una donna, ma non è detto, a questo punto, che il profilo debba uscire dal gioco delle correnti. Si cerca una figura esterna al Partito democratico. «Comunque non è che noi siamo il vecchio e Renzi è il nuovo — dice ancora il vicesegretario — . Basta vedere la lista di chi lo ha seguito nei gruppi parlamentari». Nessuno vive la scissione come una scelta consensuale. Tutt’altro. In ogni modo le strade s’incroceranno e non sempre pacificamente. Si apre un altro fronte per il Pd mentre stava faticosamente cercando un equilibrio con i 5 stelle, allargando le ragioni del governo alle alleanze nelle regioni. «Rifiuto lo schema per cui il Pd viene schiacciato a sinistra», dice Dario Franceschini a quelli della sua corrente. «Non dobbiamo dividerci i compiti. Il Pd esiste anche senza Renzi, così come lo avevamo immaginato all’inizio. Questo è il messaggio che deve passare forte e chiaro», è il ragionamento del ministro della Cultura. Ma Debora Serracchiani dice che non basta rassicurarsi, dirsi quanto siamo grandi rispetto al partito personale di Renzi. «L’unità ci è costata cara. E lo strappo non sarà indolore. Se il Pd non guarda oltre le correnti, c’è un problema. Zingaretti questo deve capirlo». C’è il danno al partito e il danno al governo. Che non è indifferente a quello che succede dentro il Pd, buttatosi nella mischia di un’operazione difficile e temeraria. Molti pensano che il movimentismo di Renzi lo farà assomigliare a un “Salvini di centrosinistra”. Un guastatore, per dirla in breve. «Come si può pensare che l’uscita di Renzi non crei un conflitto? Dovrà cercare visibilità con qualsiasi mezzo — spiega Orlando — come si fa quando bisogna lanciare un brand». Per questo l’incubo al Nazereno è quello di una presenza in tutti i talk show dove i renziani avranno la loro quota di spazio, il braccio di ferro quotidiano con i 5 stelle. «Ovvio che il nostro ruolo è quello — spiega il fuoriuscito Luciano Nobili — . Tenere a bada Di Maio e la sua agenda». Questa affannosa e indispensabile ricerca di visibilità mette il Pd nella condizioni di doversi ricalibrare in una nuova situazione. Ci sarà un rimpasto nella segreteria, dopo l’uscita dei membri del governo, con l’ingresso di figure esterne alla storia dem. «Dobbiamo essere noi il nuovo e non Renzi — dice Serracchiani — . Su questo terreno non possiamo farci superare». La scommessa da subito è quella di una campagna di tesseramento, di garantire gli assetti locali, di stabilizzare la situazione. Poi arriveranno i sondaggi, tra due settimane, e si capirà il primo effetto della scissione. Sono i sondaggi più attesi della breve storia della segreteria Zingaretti. Per capire davvero quanto conta Renzi e quanto toglie al Pd.