Ilario Lombardo

Mai contestazione è stata più gradita. Un pugno di ragazzi entra nell’anfiteatro della Mostra d’Oltremare sventolando uno striscione per chiedere di fermare la vendita delle armi alla Turchia. Luigi Di Maio è sul palco e per un attimo torna a indossare la marsina da ministro degli Esteri: «Avete ragione». E poiché siamo pur sempre a una festa del M5S, la scenografia, anche nell’improvvisazione, ha le sue esigenze. Di Maio scippa lo slogan ai contestatori, lo trasforma in un coro, tutti lo seguono. «Basta armi alla Turchia…», così l’Italia, in diretta da Napoli, annuncia la sua adesione al boicottaggio contro Erdogan. Inizia l’Olanda, poi la Norvegia, la Finlandia. Ma è quando si muove la Germania, che la nostra politica comincia a sentire il bisogno di una presa di posizione. Per tutto il giorno la sinistra incalza il governo. Arrivano i Verdi e Leu, ma prima c’è il tweet di Nicola Zingaretti: «Bisogna fermare l’invasione da parte della Turchia, siamo al fianco del popolo curdo. Mobilitiamoci in tutte le città. E il governo valuti subito il blocco delle esportazioni delle armi». Due giorni fa è stata la senatrice Monica Cirinnà la prima nel Pd a chiederlo, rilanciando l’appello della Rete per il disarmo. Ma dal governo – da Palazzo Chigi come dalla Farnesina – nessuno ha fiatato. La prudenza ha regnato per due giorni. Perché, come spiegano fonti vicine al presidente del Consiglio, Ankara è uno dei partner commerciali principali dell’Italia e soprattutto è un attore fondamentale per la crisi libica. Durante il summit Onu di fine settembre a New York, il bilaterale con Erdogan di Giuseppe Conte è servito a capire il grado di coinvolgimento possibile in una strategia che vede i turchi come possibili alleati contro l’escalation militare di Haftar, e per una soluzione pacifica che ancora non ha conquistato il sostegno degli Stati Uniti. Ma il numero dei morti che sale al confine siriano e lo strazio di un’altra guerra lampo alle porte dell’Europa travolgono ogni cautela diplomatica. La Francia è stata la prima a spingere l’Ue verso le sanzioni, ma nella triangolazione degli interessi sulla Libia è rimasta più vicina ad Haftar, e per questo è più alleggerita dalle responsabilità nei confronti di Erdogan. La sospensione sulle armi da parte di Parigi è una conseguenza logica che arriva mentre Di Maio da Napoli chiede una strategia comunitaria: «Lunedì al mio primo Consiglio europeo dei ministri degli Esteri chiederò che l’intera Unione europea blocchi la vendita delle armi». Si percepisce la volontà di non rimanere isolati, di non avvantaggiare altri possibili fornitori che approfitterebbero della frattura. La Turchia è il terzo Paese al mondo verso cui l’Italia esporta armi dopo Qatar e Pakistan. Secondo l’Uama, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali da armamento, nel 2018 il peso dell’export è stato di 362,3 milioni di euro, circa 100 milioni in più dell’anno precedente, il doppio rispetto al 2016. Parliamo di missili, munizioni, aerei, bombe. «Con me sfondate una porta aperta», ripete Di Maio ai contestatori. È vero infatti che il M5S è sempre stato in prima linea nella battaglia alle lobby delle armi, soprattutto se dirette coinvolti Paesi coinvolti in guerre. Il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano ha più volte annunciato un provvedimento simile contro l’Arabia Saudita, che secondo diverse inchieste avrebbe utilizzato ordigni prodotti in Italia per i bombardamenti in Yemen. Anche la Turchia usa armamentari Made in Italy e adesso offre ai grillini l’occasione di riprendere in mano obiettivi politici che erano rimasti sommersi nei compromessi di governo. In questo modo il governo resta allineato all’Europa, parla con la stessa voce di Francia e Germania, e dà al presidente della Repubblica Sergio Mattarella uno strumento di pressione da usare nel suo imminente viaggio a Washington quando sarà a colloquio con il presidente americano Donald Trump. «Erdogan sappia – chiude il premier Conte – che non accetteremo ricatti. Nessuno li accetterà».