Ilario Lombardo

Abbiamo fatto la pace, fatelo sapere a tutti. Così i comunicatori si sono messi al lavoro per far trapelare che tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio tutto è finito per il meglio, e il presidente del Consiglio ha accettato il mini-pacchetto di proposte che il capo politico del M5s gli ha lanciato come un macigno via blog per tutto il fine settimana. L’asse, finché dura, si è rinsaldato perché, come Conte dice al ministro degli Esteri, già il governo è appeso agli umori di Matteo Renzi, se viene a mancargli anche la sponda del M5S allora «finiamo tutti a casa». Di Maio non può che essere d’accordo: il suo sospetto però si allarga anche al Pd, che ai suoi occhi sembra usare Italia Viva come «una testa di ariete» per fermare le manette agli evasori, sgonfiare Quota 100, rivedere il regime agevolato alle partite Iva. Il leader grillino ne parla anche a Dario Franceschini, durante un incontro, veloce ma distensivo, a Palazzo Chigi nel pomeriggio. La ferita, però, resta. E va al di là delle richieste grilline. Conte ne fa una questione «di metodo, di toni e di fiducia». «Che succede Luigi?» gli chiede nel faccia a faccia del mattino davanti a un caffè. Un’ora e mezza di colloquio per cancellare le croste di una settimana di tensione. Conte non capisce dove porti la strategia di Di Maio, se non si vogliono dare per buone le indiscrezioni che circolano sull’invidia di un leader che si sente sempre ai margini dei processi decisionali. «Tu eri a Washington, ma c’erano i tuoi ministri – gli dice – Più che con me te la dovevi prendere con loro». «Ma tu – la replica di Di Maio – hai sempre saputo quali sono le nostre battaglie, eppure sul carcere agli evasori miei mi hanno detto che sembrava ascoltassi di più il Pd che noi». Rimane il precedente di quel post durissimo diretto a frantumare il cuore delle misure care alla presidenza del Consiglio. Sui tempi e sui modi Conte è esplicito. Ne fa anche una questione di calibrare la comunicazione. Mentre la manovra è sotto la lente di ingrandimento della commissione Ue, è stato il ragionamento, «queste cose non ci fanno bene». «E tu lo sai, perché hai subito sulla tua pelle l’atteggiamento di Salvini». Di Maio come il leghista prima di lui: questo è lo spettro che agita i sonni del premier, già alle prese con le picconate di Renzi. Il confronto di Conte con Luigi Di Maio ha il sapore di una questione personale. E’ l’unico leader che vede da solo, prima dei bilaterali (in modalità consultazioni con le singole delegazioni dei partiti di maggioranza) che preludono al vertice serale. A tutti porrà le stesse condizioni: se vogliamo andare avanti non possiamo alzare ogni volta il livello del conflitto interno. Va bene la sana discussione, va bene parlare di Iva, di Quota100, dei contanti, ma rendere ancora una volta la legge di Bilancio teatro di recriminazioni e strumento di presidio di uno spazio politico, alla lunga diventa sfibrante. Conte sente le voci che lo danno traballante, l’assedio attorno a Palazzo Chigi di chi scommette sulla caduta anticipata del governo. E anche per questo cerca di scrutare le intenzioni di Di Maio. Si vedono da soli, e ne danno comunicazione alle agenzie di stampa solo a incontro finito. Troppe cose sono successe in 72 ore. Da quel post che ha indubbiamente reso gelida l’aria tra i due, dopo i lunghi resoconti di questi mesi in cui la luce attorno a Conte è cresciuta in maniera inversamente proporzionale a quella che via via ha abbandonato Di Maio. Il capo politico del M5S vede una nuvola livida spandersi sul futuro a breve. Oggi sarà in Umbria. Tre giorni di campagna elettorale, sperando nel miracolo. Giovedì arriverà Conte. Perdere la regione, domenica, potrebbe avere un pesantissimo contraccolpo sulla leadership del primo. Proprio mentre alla Camera, Di Maio sembra non riuscire ad avere il controllo degli oltre 220 deputati 5 Stelle. Prima dello scorso fine settimana è stata fatta una convocazione via Doodle per sapere chi fosse disponibile ad andare in Umbria per tenere qualche comizio. Su oltre duecento hanno risposto in dieci. Una diserzione di massa che arriva nel pieno dell’impasse sull’elezione del capogruppo. Il primo partito del Parlamento non riesce a indicare il proprio portavoce a Montecitorio. Le regole prevedono una nomina a maggioranza assoluta che sembra impossibile da raggiungere. Il gruppo è spaccato, né Francesco Silvestri né Raffaele Trano, che sta coalizzando gli anti-Di Maio, riescono a spuntarla. E ora, a complicare le candidature, si vorrebbe anche aggiungere Davide Crippa, avvelenato con il leader per averlo escluso dal ministero. Tutto questo mentre un gruppo scalpita pronto a lasciare il M5S al prossimo inciampo di Di Maio.