Lorenzo Cremonesi

Ieri mattina siamo andati a Hasakah. Per puro caso la rete funzionava ancora fuori dall’area urbana di Qamishli, quando dal Corriere ci hanno segnalato un’autobomba a Hasakah contro una delle più importanti prigioni curde con oltre 2.000 pericolosi detenuti jihadisti di Isis in rivolta. All’ultimo il cambio di percorso. Invece di puntare su Kobane, la città-simbolo delle lotte del popolo curdo contro l’Isis, bombardata dai turchi l’altra notte, abbiamo svoltatoasinistra per andare verso Sud in questa polverosa cittadina che sta al confine tra le regioni arabe attorno a Raqqa, sino a tre anni fa roccaforte del Califfato, e il Rojava curdo. Poco dopo è giunta la notizia che le milizie sunnite siriane agli ordini di Ankara avevano bloccato la strada tra Qamishli e Kobane, poche decine di chilometri davanti a noi. Un frenetico messaggiarsi tra autisti. La spiacevole sensazione di essere circondati. Ma vivi. Non è stata altrettanto fortunata Hevrin Khalaf, una delle più note donne politiche del Rojava. Era partita poco prima di noi. Secondo i suoi consiglieri, sarebbe stata uccisa da una granata proprio andando a Kobane. Giungevano intanto voci di auto in fiamme, combattimenti, persone rapite. Più tardi i comandi curdi sostenevano di averricacciato i nemici verso Nord. Ma non ci sono fonti indipendenti a confermarlo e nessun giornalista è ancora andato a verificarlo di persona. È una situazione che dà il senso di ciò che sta avvenendo in queste ore con il progredire dell’offensiva turca anti-curda violentemente cominciata quattro giorni fa. Dall’aria, l’aviazione di Ankara non ha rivali. Colpisce dove vuole, controlla indisturbata. A terra, sotto le sue ali protettrici, si muovono le milizie siriane, che poi sono le stesse che agli inizi del 2018 hanno sconfittoicurdi nell’enclave di Afrin, presso Aleppo, circa 200 chilometri a ovest da qui. La popolazione è confusa, la geografia delle possibilità di movimento cambia di ora in ora, i curdi sono nel panico. Inizia a scarseggiare la benzina. A tratti le strade sono assolutamente deserte, salvo poi riempirsi di profughi. I militari curdi sguarniscono i posti di blocco, le caserme, i campi di addestramento, evitano di farsi notare dall’aria. In serata i turchi annunciano di avere preso la cittadina frontaliera di Ras al-Ayn. I curdi replicano che stanno ancora resistendo. Di fatto, è il caos. Chiudendo la provinciale per Kobane, e occupando quella che corre lungo tutto il confine turco-siriano, Ankara taglia Rojava in due. L’assedio si stringe. Lo scenario ricorda quello dell’estate 2014: con i curdi ridotti a combattere per un puzzle di territori spesso divisi tra loro, prima che intervenissero gli americani a garantire la difesa di Kobane contro l’Isis e sostenere il loro rilancio. La differenza è che oggi gli americani quasi non ci sono, il regime di Assad avanza e Isis sta rialzando la testa. Un’operazione quella turca che in queste circostanze dunque appare molto più profonda e radicale di quella annunciata da Erdogan a inizio settimana perla creazione di una «fascia di sicurezza» larga 30 chilometri. Diventa palese invece la volontà turca di eliminare il Rojava nel suo complesso, una volta per tutte. Arrivati a metà mattina ad Hasakah è semplice individuare la prigione: un massiccio edificio color sabbia nel quartiere di Gweran circondato da alti muraglioni sovrastati da filo spinato. Lungo il muro, sotto a una casamatta, ecco i resti dell’autobomba carbonizzati. L’esplosione è avvenuta circa alle due di notte, non ha creato danni particolari al muro. «Però ha scatenato una rivolta interna che abbiamo sedato con difficoltà. Ci sono rinchiusi oltre 2.000 detenuti qui. Sono il peggio, i più fanatici di Isis. Tutti volontari stranieri irriducibili. Hanno sentito dell’offensiva turca e credono di poter uscire presto per ricreare Isis. Tra loro ci sono europei, tanti francesi, ma soprattutto ceceni,russi. Gente che non ha nulla da perdere e cerca vendetta», spiega la portavoce curda della guarnigione locale, la 23enne Soze Qamishlo. «Ho scelto di fare la soldatessa a 15 anni e non mi sono mai pentita», aggiunge. Lei è occupatissima a organizzare l’invio dei volontari nelle battaglie contro i turchi. Da qui stanno partendo anche i contingenti con la missione diriaprire la strada per Kobane. Salgono sui pick-up cantando, quasi come in un film, con i nastri dei colpi di mitragliatrici pesanti attorno al collo, grumi di granate alla cintura. È ben contenta di parlareaun giornalista europeo. «Gli americani ci hanno tradito. Però voi europei credete nei diritti civili. Dite di apprezzareicurdi. Sappiamo di godere tante simpatie tra le vostre popolazioni! Come mai non fate nulla contro Erdogan? Noi siamo ancora qui a fare la guardia ai terroristi dell’Isis. Lo facciamo anche per voi. Ma sapete che se scappano torneranno nelle vostre città più determinati che mai a colpirvi?», esclama. Ammette però che col trascorre dei giorni perloro diventa sempre più difficile controllareiprigionieri di Isis: «Sono tanti, oltre 12.000 uomini, di cui quasi 4.000 stranieri, oltre alle donne eifigli nel campo di Al Hol, più di 70.000. Ma per noi le priorità adesso sono altre. Dobbiamo difenderci dai turchi. È una questione esistenziale per Rojava. Quelli di noi che da guardie carcerarie passano a combattere al fronte non vengono rimpiazzati. Siamo a corto di effettivi. Inoltre l’Isis sta tornando a colpire in tutto il territorio. Ci sono cellule dormienti nei villaggi, nelle città». Le sue parole sono ripetute in termini simili tra i 206 curdi fuggiti da Ras al-Ayn negli ultimi tre giorni e aiutati dalle organizzazioni umanitarie locali nella scuola secondaria di Bilal Ben Rabbah. Una goccia nel mare degli oltre 200.000 sfollati totali. Non a caso la scuola si trova alla periferia di Hasakeh. «Se fosse in centro città non ci saremmo fidati. La popolazione è a maggioranza araba da queste parti e temiamo rivolte anti-curde in ogni momento», dicono in tanti. Le condizioni sanitarie appaino terribili: due gabinetti per tutti e manca l’acqua. Il 60 per cento sono bambini. «Nel 2014 quando l’Isis attaccava noi curdi siamo scappati in Turchia. Ma ora siamo circondati da Nord e da Sud. Non sappiamo dove andare», dice Mahmud Hassan, camionista 40enne con cinque bambini piccoli e la moglie malata. Il fratello più giovane mostra un piede fratturato dalle bombe turche. «I mercenari siriani si fanno chiamare con il nome pomposo di Free Syrian Army, in verità tanti di loro sono fanatici jihadisti pronti a tutto. Non hanno alcun problema a uccidere noi curdi, esattamente come l’Isis». È di ieri la notizia di nove civili «giustiziati» dai miliziani. Le condizioni per tornare alle loro case lungo il confine turco? «Una forza Onu di interposizione — risponde il camionista — oppure un accordo tra Rojava e il governo di Damasco, che però deve rispettare l’autonomia curda. Altrimenti niente, resteremo profughi per sempre».