Lorenzo Cremonesi
RAS AL AIN (Siria nord-orientale) Ma gli effetti letali di questi bombardamenti li conoscono bene i combattenti curdi, che dopo tanti anni di guerreespecie le più recenti contro Isis, adesso abbassano la testa o si gettano a terra commisurando con calma ponderata lo sforzo per ripararsi alla dimensione del pericolo. «Combattiamo, non ci arrendiamo e, se arretriamo, facciamo pagare caro ogni metro ai nostri nemici. Se non fosse per la superiorità aerea turca, i mercenari siriani al servizio di Erdogan non avanzerebbero di un metro», dice Amrin Salah, donna combattente curda 23enne incontrata all’entrata di Ras Al Ain, che lei chiama alla curda «Sarikanie», la cittadina sul confine turco-siriano che lo Stato maggiore di Ankara dichiarava due giorni di aver già conquistato e invece scopriamo ancora contesa, avvolta da nuvole di fumo nero, nel pieno dei combattimenti. È sempre utile andare a verificare sul campo. Permette di smascherare la falsità della propaganda. «Mercenari siriani» Arrivare da Qamishli a Ras al Ain non è semplice. Significa percorrere circa 200 chilometri di terreno piatto semidesertico lungo un’autostrada che si dipana parallela alla «fascia di sicurezza» auto-proclamata dal governo turco all’interno del confine siriano per una profondità media di 30 chilometri. Voci incontrollate sostengono che sarebbe già infestata da miliziani di Isis, oltre a banditi e guerriglieri arabi sunniti ben contenti di approfittare della debolezza curda per alzare la testa. Noi però abbiamo trovato strada libera, posti di blocco curdi sguarniti e ogni tanto camioncini di sfollati in fuga dalle zone dei combattimenti carichi all’inverosimile diretti ai campi già allestiti per loro nella zona di Al Hasakah. I villaggi qui sono per lo più arabi. «Dentro ci potrebbero essere cellule di Isis pronte a colpire e vendicarsi», dicono gli stessi volontari curdi che accorrono con ogni mezzo per contribuire a contenere i turchi. A detta di Faran Arab, un 24 enne arabo locale che combatte con i curdi: «I turchi sono padroni dell’aria. Ma sul terreno mandano solo mercenari siriani, che sono male addestrati e disertano appena possono». I morti nelle case Dopo mezzogiorno entriamo a Ras al Ain. Il confine con la Turchia è contrassegnato da un lungo muro grigio che corre al limite dei campi minati. Ma si possono percorrere solo poche decine di metri. I bombardamenti turchi sono continui, violenti. I guerriglieri curdi evitano di farsi vedere dall’aria, stanno al riparo delle case. I droni turchi controllano notte e giorno. Avverti il ronzio. E devi allontanarti. Tra poco immancabilmente arriveranno irazzi tirati dai caccia alti nei cieli o i colpi dei mortai poco distanti. Il ministro della Difesa turco parla di «342 terroristi uccisi». I curdi qui ammettono un trentina di morti tra i loro ranghi sin dalla prima mattina. Un’altra quarantina dei loro sarebbe circondata in un edificio più avanti. In un’abitazione civile poco distante da noi hanno visto una ventina di persone morte, con anziani, donne e bambini. Noi possiamo testimoniare il flusso continuo di civili in fuga. La città appare ormai deserta. Chi ha un mezzo lo carica di mobili, vestiti. Le famiglie approfittano delle rare tregue per scappare. L’Onu parla ormai di oltre 100.000 sfollati. Destinati a crescere, visto che quasi mezzo milione di persone risiede nella zona presa di mira dai turchi. Dall’America la Casa Bianca agita «sanzioni potenti», minaccia di «piegare l’economia turca» se la Turchia si spingerà troppo avanti con l’offensiva, da Bruxelles Donald Tusk assicura che «Ankara non ciricatterà» con i profughi, ma a tutti Erdogan risponde a muso duro: «Non indietreggeremo di un passo». L’avvertimento Scappano Yusuf e la moglie Zara, rispettivamente di 71 e 60 anni. Il camioncino stipato di vestiti. «Restareèun suicidio. La vera battaglia deve ancora cominciare», dice il 40enne Khaled Ibrhaim, alla guida di un minivan carico all’inverosimile. Verso le due del pomeriggio almeno due colpi d’artiglieria pesante cadono a una cinquantina di metri da noi. L’aria è scossa da vibrazioni violente, il fumo ci avvolge. Siamo una decina di giornalisti. Il segnale è inequivocabile: dobbiamo andarcene e in fretta. I droni di turchi ci hanno individuato. Dove sono cadute le bombe, sulla strada di fronte a noi, un camioncino brucia con alcuni corpi carbonizzati ancora nell’abitacolo. L’autobomba dell’Isis Tornando a Qamishli ecco riapparire incombente lo spettro del caos. Nella mattinata le bombe turche hanno continuato a cadere, apparentemente senza mirare a precisi obbiettivi militari. I soldati curdi hanno abbandonato posti di blocco e basi nella zona urbana. Sono registrati alcuni civili morti nel quartiere di Zeitun. Ma soprattuttoèesplosa un auto bomba nei pressi di un ristornate. Nel vicino ospedale Farman riportano tre morti e una ventina di feriti, alcuni gravi. «Questo è Isis che rialza la testa. Da almeno due anni non registravamo i suoi attacchi in città», spiega uno dei medici, l’ortopedico 45enne Juan Hame. A complicare le cose si aggiungono notizie di sommosse nei campi dove i curdi tengono i prigionieri di Isis. In quello enorme di Al Hol, dove sono detenuti circa 75.000 bambini e mogli dei combattenti jihadisti, le donne più militanti hanno inscenato manifestazioni violente. La destabilizzazione continua e il peggio pare debba ancora venire.