Luca Salvioli
Si chiama Jump ma si legge Uber. E da ieri è in Italia, a partire da Roma. L’app offre un servizio di bikesharing elettrico a pedalata assistita. In altri paesi propone anche monopattini elettrici, ma sembra che in Italia la normativa ancora non del tutto chiara sia tra gli elementi che hanno indotto l’azienda ad aspettare su questo fronte. Jump è stata acquisita da Uber nel 2018 e il suo arrivo a Roma «è un tassello importante del puzzle che vuole raccontare cos’è oggi Uber, ovvero una unica app che offre servizi di trasporto multimodale» spiega Lorenzo Pireddu, 36 anni, general manager di Uber Italia. Nei Paesi dove il servizio è più avanzato, a partire dalle città californiane, all’interno della app vengono offerti tutte le soluzioni disponibili, dalle auto al monopattino, fino al servizio pubblico. Le biciclette a pedalata assistita Jump sono disponibili in 13 città degli Stati Uniti e in 8 città in Europa. Il suo arrivo in Italia ha anche un valore simbolico, perché rappresenta la volontà dell’azienda di crescere nel nostro Paese dopo le proteste e le sentenze che ne hanno limitato l’offerta. In Italia siete partiti da Roma, avete intenzione di lanciare Jump anche a Milano? Ci sono diverse ragioni per cui la nostra prima città per i servizi Jump è Roma. Innanzitutto anche negli altri Paesi abbiamo aperto nelle capitali. Inoltre a Roma non c’erano operatori sul mercato e ci siamo presentati in conseguenza di una manifestazione di interesse alla sperimentazione del bike sharing con pedalata assistita. Lavorando insieme alle istituzioni, perché questo è il nostro approccio. Non sempre è stato così. Uber è arrivata in Italia con le auto a noleggio con conducente (ncc) nel 2013 ed è stata accompagnata da manifestazioni dei tassisti, polemiche e manifestazioni di protesta , fino al bando di Uber Pop. Per quanto io sia responsabile di Uber in Italia da soltanto 6 mesi (un cambio recente che ha riguardato le prime linee del management, ndr) posso dire che quella di Uber Pop è stata una lezione importante per la nostra azienda. Abbiamo imparato che per lanciare un servizio bisogna collaborare con le città, non partire e occuparsi soltanto dopo delle leggi. Ci siamo anche scusati pubblicamente a metà dell’anno scorso. In che modo avete collaborato con l’amministrazione capitolina per il lancio di Jump? Abbiamo studiato la topografia della città, le condizioni delle strade – una delle ragioni, per esempio, per cui abbiamo preferito le bici ai monopattini. Condiviso i dati con la città, cercando di capire le aree dove c’è più bisogno di biciclette. Il business del bike sharing si sta rivelando complesso dal punto di vista della sostenibilità finanziaria, vedi il caso di Ofo e Mobike. In realtà abbiamo dei segnali molto positivi dalle città dove siamo già operativi. In molte parti del mondo Uber offre una moltitudine di servizi: taxi, condivisione di auto private, a New York persino i giri in elicottero. In Italia dopo Jump qual è il prossimo passo? Oggi abbiamo le auto di lusso di Uber Black, Uber Lux e Uber Van. Abbiamo Uber Eats per la consegna di cibo a domicilio già attivo in 14 città. E abbiamo la sperimentazione con i taxi a Torino. Quello dei taxi fino a pochi anni fa sembrava un tabù per Uber, specialmente in Italia. Come sta andando? Stiamo imparando molto lavorando con i tassisti riguardo alle specificità del loro lavoro. Il nostro obiettivo non è andare di fretta ma costruire soluzioni basate sui bisogni dei clienti e dei partner. E sul rispetto delle leggi. Come avvenuto con gli ncc lo scorso maggio. La legge impone che gli autisti, tra un servizio e l’altro, rentrino in rimessa e compilino un foglio di via. Abbiamo aggiornato la app, specie nella parte dedicata agli autisti, per permettere di fare la compilazione all’interno della app. Questo solo nella sua versione italiana, per adeguarci alle leggi locali. Restiamo convinti che ci possano essere soluzioni più innovative, per questo continuiamo a dialogare con le istituzioni per aggiungere valore alla app.