Luigi Ippolito
Londra Da oggi la culla della democrazia parlamentare, la Gran Bretagna, è senza Parlamento: o almeno lo sarà per le prossime cinque settimane. Ieri sera le Camere sono state spedite in vacanza forzata, in base alla decisione presa dal governo alla fine di agosto: per evitare, dicono i critici, che i deputati continuassero a ostacolare il progetto del premier Boris Johnson di portare a compimento la Brexit entro il 31 ottobre «vivi o morti».
Ma i deputati non sono andati a casa senza prima sparare un’ultima salva contro l’esecutivo: perché hanno rifiutato per la seconda volta di concedere a Boris le elezioni anticipate, che lui vede come l’unica soluzione per uscire dall’impasse.
Ieri ha anche ricevuto l’assenso della Regina la legge che impone a Johnson di chiedere il rinvio della Brexit al 31 gennaio se non sarà stato trovato un accordo con la Ue: il provvedimento è dunque pienamente in vigore e costringe Boris in una gabbia.
Il premier continua infatti a insistere che un rinvio infliggerebbe un «danno permanente» al Regno Unito: ma non si vede come lui possa divincolarsi dalla stretta. Dalle fila del governo partono le soffiate più fantasiose: come quella seconda cui Boris potrebbe scrivere alla Ue due lettere, una per chiedere il rinvio (come impone la legge) e un’altra per dire che no, la prima missiva non vale. Ma l’impressione è che si tratti di ballon d’essai, fatti apposta per irritare le opposizioni e indurle ad andare al voto anticipato. In mancanza del quale, Boris potrebbe arrivare anche a dimettersi pur di portare il Paese alle urne.
Ieri il premier è volato a Dublino per una prima presa di contatto col collega irlandese Leo Varadkar. Quella dell’Irlanda è la vera pietra d’inciampo sulla strada di una intesa fra Londra e Bruxelles: il governo Johnson chiede infatti che sia rimossa la «clausola di garanzia» per l’Irlanda del Nord, che costringe tutto il Regno Unito a restare allineato al mercato unico per evitare il ritorno a un confine fisico fra le due Irlande. Varadkar ha detto che è pronto a prendere in considerazione soluzioni alternative: ma che finora da Londra non sono arrivate proposte concrete.
Da parte sua Boris ha tenuto a sottolineare che il suo obiettivo è raggiungere un accordo con l’Europa: altrimenti, ha ammesso, sarebbe un fallimento. Ma domenica la ministra del Lavoro Amber Rudd, una conservatrice moderata che la sera prima aveva rassegnato le dimissioni, ha rivelato che «l’80-90%» delle energie del governo sono dedicate alla preparazione del no deal, il divorzio senza intese: mentre quasi nulla si sta facendo per raggiungere un compromesso.