Luigi Ippolito

Qualcosa sta tracimando in Gran Bretagna. Qualcosa che non si era mai visto prima. Un linguaggio violento che sta rompendo gli argini: e che rischia di chiamare sangue. Sì, può sembrare un’esagerazione: ma ricordiamo che già tre anni fa, alla vigilia del referendum sulla Brexit, una deputata laburista filo-europea, la coraggiosa Jo Cox, era stata accoltellata a morte da un estremista di destra al grido di «Britain first», prima la Gran Bretagna. E ancora oggi l’ombra cupa di quel delitto grava sul Parlamento di Westminster, dove l’altro giorno è andato in scena uno spettacolo indegno: grazie, si fa per dire, alla disinvoltura verbale di Boris Johnson. Quando un’altra deputata laburista gli ha ricordato, in aula, che bollare gli avversari della Brexit come «traditori» pronti alla «resa» è un linguaggio che incita a quella violenza che ha tolto la vita a Jo Cox, Johnson ha replicato: humbug, fesserie. E ha preteso che il modo migliore di onorare la memoria di Jo sarebbe proprio quello di portare a termine il divorzio dalla Ue. Il vedovo della Cox ha reagito dicendo che gli veniva da vomitare; ma soprattutto le politiche donne hanno espresso il loro disgusto, dalla leader liberale Jo Swinson a quella scozzese Nicola Sturgeon fino alla combattiva laburista Jess Philips, che detiene il triste primato delle minacce di stupro e di morte. Perché la verità è che la Brexit ha polarizzato le opinioni ed esasperato gli animi: e anche nella civile Gran Bretagna al dibattito delle idee si sono sostituiti l’invettiva e l’insulto. Il problema è che a rinfocolare le fiamme ci si è messo lo stesso primo ministro: le cui parole appaiono ora legittimare quella violenza verbale. Che, come gli è stato ricordato, finisce prima o poi per tradursi in gesti sconsiderati. Lui rifiuta di scusarsi: anzi, i suoi scherani ripetono che proprio frustrando la Brexit si andrebbe incontro a disordini civili. Cosa che ormai, vista la piega presa dagli eventi, pochi si sentirebbero in animo di escludere. Grazie, Boris.