Marco Ansaldo

La donna è seduta sullo scalino di marmo dell’obitorio di Suruc. Piange con un dolore pieno di strazio. In testa un velo nero che l’avvolge per tutto il corpo, tranne per la mascherina azzurra che le copre la bocca. Sul tavolo, nascosto da un sudario intriso di sangue, il corpo del marito si può solo immaginare. Un padre di 10 figli, raggiunto per strada dalla scheggia di un obice. Lo strazio di questa moglie turca, che ritmicamente batte le mani sulle gambe, è lo stesso di tante – purtroppo molte di più – donne curde oltre la frontiera. E le parole che escono dalla bocca, delle une e delle altre, sono le stesse, benché con intenzione opposta: «Erdogan, che cos’abbiamo fatto di male?». Non c’è differenza nella morte, e nel dolore, se bisogna misurare quello delle mogli dei civili colpiti in territorio turco, o quelle delle madri dei combattenti curdi massacrati in zona siriana. In questi dieci chilometri maledetti di deserto, diviso a metà da una barriera spinata, si gioca la prima fase di una guerra appena cominciata. Nessuno ha mai avuto dubbi che i soldati di Ankara, con un esercito incomparabilmente più forte e attrezzato, avrebbero presto colto la prima significativa conquista sul campo. «L’area residenziale di Ras al-Ayn – si legge nel pomeriggio in un comunicato delle Forze armate – è stato posto sotto il controllo delle nostre truppe, nell’ambito dell’operazione Fonte di pace». Per giorni le milizie curde, a cui si aggiungono quelle arabe unite nell’alleanza delle Forze democratiche della Siria, hanno provato a resistere. Hanno anche smentito la presa della città. Ma alla fine la roccaforte del governatorato siriano di Hasakah, dove molti jihadisti dell’Isis sono detenuti e dove un’autobomba ieri è scoppiata vicino al carcere, è stata occupata. Ecco perché quest’area pullula di esponenti appartenenti all’ex al Qaeda. In tanti, piuttosto di fuggire nel nulla o essere ricatturati dai curdi, si sono prontamente schierati con i turchi. Due di loro, catturati come ostaggi dalle forze curdo-siriane e messi in ginocchio, vengono mostrati in foto sui social media diffusi dai resistenti. A parole la Turchia assicura di essere pronta ad assumersi la responsabilità dei tagliagole dell’Isis tuttora rinchiusi nei centri di detenzione. Il presidente Recep Tayyip Erdogan ne ha discusso al telefono con Donald Trump, dando la propria garanzia. Ma oggi la credibilità di Ankara è vicina allo zero. Per non parlare, in politica estera, di quella americana. Un episodio imbarazzante lo conferma: la furia, ne ha parlato la Cnn, con cui il comandante delle Forze democratiche siriane, il generale Mazloum Kobani Abdi, ha investito in un incontro l’inviato della Coalizione globale per la difesa contro l’Isis, l’ambasciatore Usa, William Roebuck. «Ci avete venduti – gli ha detto in faccia -. Ci avete abbandonati per essere massacrati. Non volete proteggerci e non permettete che altre forze lo facciano. Tutto questo è immorale». A Suruc, gemella di Kobane, che le sta davanti ma sul fronte bellico opposto ora, siamo oggi a tre civili morti, che si aggiungono alla decina di questi primi cinque giorni di guerra. In Siria, siamo invece alle svariate centinaia di uccisi, fra miliziani e popolazione. Una conta da brivido. Se l’Onu ieri l’altro parlava di 100 mila profughi in fuga, oggi le autorità curde precisano che la cifra sarebbe di 191 mila sfollati. Altro che operazione “Fonte di pace”. Altro che impegno per trasferire i rifugiati. La Lega araba ieri riunita ha picchiato duro sulla Turchia. «L’aggressione alla Siria costituisce una minaccia diretta per la sicurezza araba, così come per la pace internazionale. È un’invasione di uno Stato arabo e un’aggressione alla sua sovranità». Ankara ha reagito con il solito sprezzo: «Definiscono in modo distorto l’operazione antiterrorismo in Siria come un’‘invasione’». Sofismi da diplomatici. Ma sul campo si continua a morire. In modo atroce. Vicino a Qamishli, la segretaria generale del partito Futuro della Siria, Hevrin Khalaf, nota per il suo impegno a favore delle donne curde e per la laicità di uno Stato plurietnico, è stata uccisa in un agguato dai mercenari sostenuti dalla Turchia. Trascinata fuori dall’auto è stata fatta fuori come in un’esecuzione. Sul pullmino con lei c’erano altri nove civili, tutti eliminati.