Marco Imarisio

Alla frontiera alta sembra che sia scoppiata la guerra. Intorno alle due casupole del valico di confine con la Francia lungo la statale Aurelia sono schierati otto blindati e una cinquantina di gendarmi, muniti di sguardo duroemitragliatrici spianate. Era stata un’estate tranquilla, persino in questo lembo estremo d’Italia che quattro anni fa divenne uno dei simboli europei del dramma dell’immigrazione, con centinaia di profughi senza nome e senza niente accampati sugli scogli dei Balzi rossi, che tentavano di passare dall’altra parte, verso Mentone, a nuoto oppure tentando la via stretta e pericolosa delle montagne che sovrastano il mare. Ancora negli ultimi giorni d’agosto, il vecchio posto di blocco che separa i due Stati era popolato solo da qualche agente che faceva passare le famiglie di rientro dalle vacanze. Invece, alle 18 di quello che dovrebbe essere un normale martedì di settembre, prima e oltre le sbarre appare uno schieramento imponente, con i blindati messi di traverso a sbarrare qualunque deviazione sul piazzale, auto «civili» perquisite con modi bruschi, controlli molto più stretti del solito, che comunicano una certa ansia, comunque una sensazione di urgenza. L’apparenza non inganna, per una volta. La spiegazione è nei numeri raccolti dai volontari delle associazioni KeshanyaeDiaconia, che lavorano a stretto contatto con la Caritas e, in una accezione diversa, con la Gendarmerie. Nel senso che controllano 24 ore al giorno il valico che tutti qui chiamano la «frontiera alta», per differenziarla da quella «bassa» sulla provinciale della Valle Roya che dalla Francia conduce a Cuneo. I respingimenti dei migranti verso l’Italia da parte delle forze dell’ordine francesi non sono mai cessati del tutto, nonostante le proteste delle organizzazioni umanitarie e talvolta anche del nostro governo. L’estateèsempre la stagione più intensa. A luglio ed agosto erano state contate poco più di 150 persone al mese, ben sopra la media annuale. Ma nella prima settimana di settembre, il numero sièimpennato fino a diventare abnorme, 420 migranti prima trattenuti e poi rilasciati in strada. Rispediti oltre confine, da noi, con le consuete cattive maniere sempre denunciate dalle associazioni non governative. Nella seconda settimana, 8-15 settembre, la tendenza si è ancora più accentuata, 60-70 persone ogni giorno. «Non è questione di predicare bene e razzolare male, perché è dal giugno 2015, da quando ci fu la prima emergenza, che i francesi razzolano male. Quindi la novità è solo nel dato statistico». La premessa di Maurizio Marmo, che da nove anni dirige la Caritas di Ventimiglia introduce la domanda che i suoi volontari si sono posti per primi. Perché questo aumento così improvviso di respingimenti? Serena Regazzoni, responsabile dell’area immigrazione, ha trovato una risposta sorprendente raccogliendo le testimonianze dei migranti appena espulsi dalla Francia. Sono persone provenienti dal Corno d’Africa e dal Marocco, dalla Tunisia. Ma per arrivare da noi «hanno fatto il giro dall’altra parte», come ci confermano anche due dei tanti ragazzi marocchini nascosti tra le rocce in attesa di riprovare il passaggio della frontiera una volta calato il buio. Sono passati per la rotta balcanica, conferma Serena che non ha una spiegazione per questo maggiore afflusso attraverso la via più inusuale per chi proviene dai Paesi affacciati sul Mediterraneo. L’unica apparente certezza è che il termine italiano di questo viaggio non è più il valico piemontese di Bardonecchia,molto più sorvegliato e difficile da passare dopo la mezza crisi diplomatica dello scorso autunno con la Francia causata dagli sconfinamenti dei gendarmi. I migranti che si presentano al mattino per ricevere un pasto sanno che rimane questa la frontiera più porosa. Arrivano fino all’ingresso del campo della Croce Rossa sul fiume Roya, parlano con gli addetti, sempre restando fuori. L’entrata comporterebbe la rilevazione delle loro impronte digitali, che certificherebbe l’Italia come Paese di primo ingresso. Loro cercano la Francia, invece. Alla Caritas di Ventimiglia restano solo le persone più vulnerabili, con problemi psichici o fisici. Gli altri rimangono nascosti sulle montagne e lungo il fiume che attraversa la città, evitando i luoghi affollati, perché dai racconti di chi li ha preceduti hanno imparato che da questa parte della frontiera l’importanteènon farsi vedere, non dare nell’occhio. E così può continuare questo continuo rimpallo da un Paese all’altro di esseri umani che nessuno vuole.