Marco Menduni

Tra il viadotto Pecetti, 132 metri su due campate, uno dei giganti dell’A26 che dal Piemonte scende giù al mare di Voltri, e l’area in cui sorgeva il ponte Morandi ci sono 15 chilometri di distanza. Venti minuti al massimo, in macchina. In quei 15 chilometri si dipana l’inchiesta arrivata, qualche settimana dopo l’anniversario della tragedia del 14 agosto, la messa cantata, la commemorazione delle 43 vittime, alla prima grande svolta giudiziaria. Non è il corpo principale dell’inchiesta per la sciagura di Genova. Ma è la prima risposta alle richieste di giustizia e delinea, in quello che la procura ricostruisce, un quadro inquietante della gestione della sicurezza. Finiscono ai domiciliari Massimiliano Giacobbi di Spea, la controllata di Autostrade per le manutenzioni e la sicurezza, e due pezzi grossi di Aspi della direzione VIII tronco, Gianni Marrone e Lucio Torricelli Ferretti. Poi in sei vengono sospesi dai pubblici servizi per 12 mesi: Maurizio Ceneri, Andrea Indovino, Luigi Vastola, Gaetano Di Mundo, Francesco D’antona e Angelo Salcuni. Altri sei rimangono indagati a piede libero. E fanno 15. Tutti nel mirino dei pm, con diverse sfumature, accomunati da un’accusa che i magistrati scandiscono in cento pagine fitte di ordinanza in maniera precisa. C’era un disegno per edulcorare i test e le verifiche, per far sì che le criticità e i potenziali pericoli venissero sottovalutati. Il giorno prima del Ferragosto dell’anno scorso il Morandi crolla, portando con sé il suo carico di morti e dolore. Cambia, questa sciagura, il modo di agire? Pare di no, perché uno degli indagati intercettato ha un sussulto di dignità e ammonisce il suo interlocutore: «Non è possibile una superficialità così spinta dopo il 14 di agosto, vuol dire che la gente coinvolta non ha capito veramente un c. ..». La vicenda, nelle carte della procura, si svolge parallela su un asse lunghissimo che congiunge la Liguria alla Puglia, con due ponti sotto osservazione. Riparte da qui, sotto al viadotto Pecetti. Il grande ponte che dal basso fa paura, sentimento rinforzato dalle fotografie scattate dagli abitanti della zona. Le pagine dei magistrati sono complesse, sia in punto di diritto che in considerazioni ingegneristiche. Ma il senso vero può esser riassunto così: i tecnici rilevano che si è rotto uno dei cinque cavi costituiti da trefoli intrecciati. La falsa ricostruzione Da quel momento scatta il tentativo, sempre nella ricostruzione dei pm, di negare la verità. Il cavo spezzato è uno dei tre principali. Però viene accreditata una ricostruzione alternativa e falsa: che in realtà sia uno dei due secondari, meno importante. Perché così il pericolo viene sminuito. Perché così non si deve vietare il transito ai mezzi più pesanti. Perché così transita anche quel trasporto eccezionale da 141 tonnellate, nella notte tra il 21 e il 22 ottobre dell’anno passato. Erano consapevoli, gli indagati, di quel che stavano facendo? Gli inquirenti dicono di sì: per evitare che le conversazioni telefoniche venissero intercettate, c’è anche chi ha usato il jammer, un dispositivo che le protegge. L’altro caso, scoperto nelle prime fasi dell’indagine del Morandi, è più lontano nello spazio. Il viadotto si chiama Paolillo, si trova sull’A16, in Puglia. Spiega la procura che è stato costruito in maniera differente rispetto al progetto, ma anche in questo caso si è cercato di occultare la verità. Eppure, proprio per le differenze accertate, le relazioni di calcolo e di contabilità non potevano garantire nulla sulla reale sicurezza. Non era più il viadotto progettato, quei dati non significavano più nulla. Qui emerge un altro elemento choc dell’inchiesta. «C’è una disinvoltura degli indagati a modificare le relazioni tecniche – scrive il gip – in spregio alle loro finalità di sicurezza». C’è chi, come il dirigente dell’VIII tronco di Bari Marrone, è già stato condannato in primo grado l’11 gennaio alla pena di 5 anni e 6 mesi per i reati di omissione di vigilanza e alla manutenzione del viadotto Acqualonga, «ma ha perseverato durante il dibattimento nelle proprie condotte». Il riferimento è all’incidente del 28 luglio 2013 con 40 vittime: un pullman con i freni rotti, tradito dalla mancata resistenza del guard rail, precipita giù. La replica di Autostrade Autostrade, ovviamente, reagisce. I due viadotti, sostiene, sono assolutamente sicuri: «Gli interventi di manutenzione sono stati conclusi diversi mesi fa e la società ha inviato il 4 dicembre 2018 al ministero delle Infrastrutture e Trasporti un report contenente il dettaglio degli interventi manutentivi realizzati e delle verifiche effettuate sui viadotti della rete, tra cui il Pecetti e il Paolillo». Per il caso-Pecetti, sottolinea, aveva già «provveduto a cambiare la sede operativa dei due dipendenti interessati dai provvedimenti». In serata, poi, le determinazioni del Cda di Atlantia, la holding di cui Aspi fa parte: un audit da affidare a una «primaria società internazionale» per verificare la corretta applicazione delle procedure aziendali da parte delle società e delle persone coinvolte. Arriva anche la dichiarazione del presidente della Regione Giovanni Toti: «Quanto emerge sconcerta, in particolare chi amministra una città e una regione che hanno vissuto la tragica esperienza di ponte Morandi. Pretendiamo verità, processi brevi e pene esemplari per chi sarà giudicato responsabile. Genova, la Liguria e i familiari delle 43 vittime meritano verità e giustizia».