Marco Zatterin
Se si compie l’immane sforzo di guardare al caso Ilva senza farsi distrarre dalle troppe e confuse voci della politica, la scena si presenta drammaticamente chiara. Un anno fa, Arcelor Mittal ha affittato per 18 mesi l’Ilva di Taranto con l’impegno di acquisirla il primo giugno prossimo, per un totale di 1,8 miliardi; contestualmente, il colosso siderurgico euroindiano s’è impegnato a investimenti ambientali (1,1 miliardi) e industriali (1,2). È stata una gara vinta al rialzo ad un prezzo non da saldo: «Hanno pagato una bicicletta usata al prezzo di una nuova», è il senno fuggito dal cuore d’un analista di lungo corso. Eppure, è apparso il migliore degli accordi possibili, ai lavoratori, ai signori dei palazzi romani come ai tecnici di Bruxelles, scesi in agosto per vedere l’aria che tira e quella che respiriamo, e rientrati a casa soddisfatti.
A dodici mesi dal passaggio di mano, Arcelor Mittal ha fatto saltare il tavolo. Con calma si può ragionare sulla possibilità che abbiano compiuto un passo più lungo della gamba con quella firma del 2018. Errore o no, si sono infilati in una posizione scomoda. I dazi americani li espongono sempre di più alla concorrenza asiatica e turca, mentre la domanda europea è in forte calo e, secondo le stime, lo sarà almeno per altri due trimestri.
L’intrigo del caso Ilva, complicato dalla mutabilità degli umori politici nazionali, ha finito per generare gran turbamento in Mittal & Co. Sempre che, come bisogna naturalmente ritenere sino a prova contraria, siano tutti in buona fede. Allora prendete dei non italiani e portateli nel paese dove gli italiani sono accampati da secoli. Poneteli di fronte a ogni sorta di alea e vincolo, ambientali e legali, poi industriali. Se siamo di qui, abbiamo ben presente come nelle amministrazioni pubbliche chi firma un pezzo di carta lo faccia col timore di finire indagato suo malgrado. E che un sindaco trascurato dalla magistratura sia un elefante bianco.
Lo scudo penale serviva a garantire il management dalle code delle precedenti gestioni. Se sono seri, i nuovi signori di Taranto devono aver pensato che dopo l’eliminazione in Parlamento non ne valesse più la pena. «Senza tutele non ci viene nessuno», concede un giurista che lavora col governo dove, come evidente, albergano anime differenti e contrastanti.
È un pasticcio con una sola soluzione accettabile: salvare il potenziale industriale rimasto della più grande fabbrica siderurgica d’Europa, dare un futuro a quasi ventimila lavoratori (indotto compreso), e assicurare la tutela della salute dei tarantini che rischiano di pagare il prezzo più alto e duraturo dello stallo. Per centrare questo obiettivo, ci sono due vie: ripristinare le condizioni per realizzare il piano Mittal, ribadendo lo scudo penale con tutti i suoi rischi, senza però riaprire la trattativa sui contenuti industriali; oppure rompere con gli euroindiani, buttandosi in una disputa giuridica complessa e potenzialmente costosa, trovando al contempo un nuovo socio (chi, a queste condizioni?) oppure ripubblicizzando profilati e affini (con quali soldi?).
Quale sia la risposta che si vorrà e riuscirà a dare, ce n’è un’altra che non si può rinviare. Nessun governo italiano ha fatto miracoli per l’industria nazionale e tantomeno per il Mezzogiorno. L’assistenzialismo è prevalso sulla strategia di sviluppo e la stagione gialloverde è apparsa più parca di successi del previsto. Nell’ultimo anno sono passati al Mise accordi annunciati come miracolosi – da Whirlpool a Pernigotti – che la realtà ha trasformato in beffa. L’Ilva è l’ennesimo brutale inciampo per una classe politica ondivaga e stonata. Rischia di innescare una crisi lunga e difficile, durante la quale non bisognerebbe dimenticarsi di chi produce, di chi lavora, di chi respira. Servirebbe una decisione presa nell’ambito di una strategia industriale seria e moderna, concertata, credibile e mantenuta nel tempo. Se non ci piace dove stiamo, esiste sempre la facoltà di cambiare posto. Siamo uomini, mica ciminiere.