Martin Wolf
«Bisogna cambiare il capitalismo». Il proclama lanciato nei giorni scorsi a Londra non proviene dal socialista Jeremy Corbyn, bensì dalle pagine del giornale che del capitalismo è la bibbia: il Financial Times. Il cui più importante commentatore economico, Martin Wolf, ha scritto un j’accuse nei confronti della City, dell’industria, dell’economia di mercato odierna, paragonabile alla celebre lettera aperta di Emile Zola contro l’antisemitismo. «Troppa diseguaglianza, corporation che eludono legalmente il fisco, monopoli digitali che dominano il mondo, stanno facendo perdere alla gente fiducia nel capitalismo democratico», dice a Repubblica l’autorevole columnist «Se andiamo avanti così, il sistema rischia di non sopravvivere». Cambiare il capitalismo, mister Wolf, sembra uno slogan di Corbyn: come mai viene dal Financial Times? «È una buona domanda. La differenza è che io voglio migliorare il capitalismo, mentre il leader laburista probabilmente vorrebbe abbatterlo». Perché proprio ora questo appello? «Sto scrivendo un libro sulla crisi del capitalismo democratico. Ho anticipato al mio direttore che avrei voluto affrontare lo stesso argomento in un articolo. Immaginavo che potesse essere difficile pubblicare un verdetto così radicale sul giornale che del capitalismo è una bandiera. Ma il direttore Lionel Barber è rimasto convinto dalle mie argomentazioni e ha detto che compito del nostro giornale è raccontare la verità: per cui lo ha pubblicato con grande rilievo». E quale è stata la reazione dei lettori? «A qualcuno non è piaciuto. Ma sono rimasto sorpreso da quanti, all’interno della comunità della finanza, degli affari, dell’imprenditoria, si sono detti sostanzialmente d’accordo. È certamente l’articolo che ha suscitato maggiore interesse fra tutti quelli che ho scritto per il Financial Times». Cos’è che non va nel capitalismo? «È ovvio che l’economia nei paesi occidentali non sta funzionando bene. I problemi che si sono accumulati negli ultimi quattro decenni, e in particolare negli ultimi dieci anni, si possono riassumere in tre punti: calo della produttività; aumento della diseguaglianza; strapotere finanziario». Con quali conseguenze? «Una profonda disillusione da parte della gente: l’impressione che il sistema capitalista non distribuisca più un benessere diffuso, ma premi i pochi a discapito dei molti». E questo ha generato l’ondata di populismo che sta sconvolgendo il mondo, a partire dalla Brexit nel Regno Unito e dall’elezione di Trump negli Stati Uniti? «L’elenco può continuare: la crescita della Lega in Italia, del Fronte Nazionale in Francia, di partiti estremisti in Germania e Olanda. Tratto comune a tutti: il nazionalismo. Con la tendenza a dare la colpa del malessere a fenomeni esterni, come la globalizzazione e l’immigrazione. Ma i fatti non sostengono simili accuse. Se in Italia non entrasse più un singolo immigrato, i problemi italiani resterebbero immutati. Incolpare globalizzazione e immigrazione è una frode. La colpa è del capitalismo che non funziona più». Cosa bisogna cambiare, dunque? «Il settore finanziario non fornisce sufficienti benefici all’economia reale. La competitività diminuisce, specie in campo digitale, con giganteschi monopoli e una mentalità da vincitore prende tutto. Il management aziendale ha redditi troppo alti rispetto a dipendenti e lavoratori medi. Le grandi corporation non pagano le tasse: non hanno bisogno di evaderle, basta l’elusione fiscale, diventata ormai una vasta industria in grado di nascondere legalmente immensi capitali in paradisi fiscali». Nel suo articolo parla di rischio per la democrazia… «Se il sistema non cambia, la gente perderà fiducia nella capacità del capitalismo democratico di funzionare bene per tutti. Sembrerà un sistema truccato, in cui si applicano certe regole ai ricchi e regole differenti a tutti gli altri. E questo farà perdere legittimità al sistema. Non c’è da sorprendersi che, in queste condizioni, l’opinione pubblica non si fidi più della competenza ed onestà delle élite che la governano. Se le cose non migliorano, non possiamo essere certi che il sistema sopravviverà». Un libro appena pubblicato in America, “A crisis wasted”, sostiene che la grande crisi finanziaria del 2008 fu un’occasione sprecata di riformare il capitalismo. «Avremmo dovuto fare di più per riformare la finanza. Ma dieci anni fa, nonostante il rallentamento dell’economia, le democrazie occidentali sembravano solide. Ci si preoccupava per l’Italia e il Giappone, ma sembravano problemi specifici». Qualche commentatore scrive che Obama non fece abbastanza. «Dopo la crisi del 2008, Obama ha dato la priorità a riportare la situazione alla normalità. È vero, ci sarebbe voluta un’azione più radicale. Ma non aveva abbastanza sostegno al Congresso. Ed era in una situazione ben diversa da Franklin Roosevelt, che andò al potere dopo tre anni di spaventosa recessione, con la disoccupazione al 25 per cento e l’urgenza di trasformare a fondo l’economia, come fece con la politica del New Deal». E in Europa? «L’eurozona nell’ultimo decennio è stata salvata da Mario Draghi. Ora la Banca Centrale Europea ha esaurito le manovre a disposizione e Draghi non c’è più. Christine Lagarde merita stima, ma non è Draghi. Siamo ancora nel mezzo della crisi. Anzi, forse solo all’inizio, perché se l’Occidente cade in recessione ognuno darà la colpa all’altro con rischi per l’eurozona». Come giudica i politici di oggi? «In Gran Bretagna siamo consumati dall’idiozia della Brexit. Il Labour è al collasso, forse sarebbe andata diversamente se David Miliband, non suo fratello Ed, ne fosse diventato il leader dopo Blair e Brown. Quanto al partito conservatore, è irriconoscibile: è diventato un partito nazionalista. Sul continente, Macron sta provando ad andare nella direzione giusta. Nel partito democratico Usa, mi pare che la senatrice Elisabeth Warren ponga le domande giuste. Ma nella maggior parte dell’Occidente, centro-destra e centro-sinistra hanno espresso una carenza di vitalità morale e intellettuale, lasciando un vacuum nel quale prosperano demagoghi di destra e di sinistra. Si avverte un’eco degli anni Trenta del secolo scorso. Solo che allora la risposta fu il New Deal e c’erano intellettuali come Keynes a predicare la necessità di un cambiamento. Adesso mi pare che siamo peggio equipaggiati, sia come politici che come intellettuali».