Massimiliano Panarari

La postmodernità è il regno dei paradossi. E ha introdotto modelli cognitivi e interpretativi diversi, se non antitetici, rispetto alla logica razionale, dentro cui si annidano, a volte, rischi collettivi molto forti ma non decifrabili perché collocati all’interno di narrazioni ben confezionate (e magari pure affascinanti). Come nel caso dell’ideologia della trasparenza, un must della Silicon Valley, presentata come un grande traguardo dell’umanità perché se non si ha nulla da nascondere non si deve temere di rendere pubblico (specie sui social) ogni aspetto di sé. Una visione che fa ben più di una grinza sotto il profilo della sensatezza, per l’appunto, ma che viene spacciato per gesto normale e positivo, da incentivare a più non posso presso tutti gli utenti del web. E, invece, questi nostri «atti di trasparenza» non vengono soltanto presi sempre più in ostaggio a fini di profilazione pubblicitaria, ma diventano mezzi di oppressione consegnati spontaneamente ai poteri autoritari e liberticidi. E la terribile piega presa dalla reazione della Cina e dalle autorità di Hong Kong contro le proteste dei cittadini lo mostra in maniera palese. Nelle scorse ore il governo filocinese ha invocato prerogative di tipo emergenziale per stroncare i cortei che si susseguono nella metropoli nonostante l’escalation della repressione. E per rendere operativa la «norma anti-mascherine» l’amministrazione di Carrie Lam – che si proponeva di spaccare il fronte avverso separando i «moderati» dagli studenti e dai più radicali – ha rispolverato addirittura una legge di età coloniale, la «Emergency Regulations Ordinance», inapplicata da più di mezzo secolo. Nell’epoca della predicazione della trasparenza digitale come virtù assoluta, i manifestanti di Hong Kong adottano lo strumento offline e «analogico» della maschera per tutelare l’incolumità della propria persona (oltre che per difendersi concretamente dai gas lacrimogeni della polizia). Ed è come se la gestione dell’ordine pubblico ci riportasse improvvisamente a ritroso nel passato, diventando materia viva (e, purtroppo, sempre più sanguinante) della politica. Tanto più dal momento che in Cina il riconoscimento facciale di massa è realtà effettiva, e non una distopia fantascientifica. E, dunque, il segreto della mascherina e la tutela della privacy diventano la sola forma di resistenza possibile al cospetto dello strapotere tecnologico e dell’idea secondo cui tutto deve risultare visibile e fintamente trasparente (nell’esclusivo interesse della sorveglianza esercitata da un qualche potere). Pare, così, anche di tornare a John Locke e ai filosofi dell’opinione pubblica borghese del Sei-Settecento, gli alfieri delle libertà dell’individuo (e del suo diritto alla privatezza) di fronte alla minaccia di uno Stato arbitrario e onnipotente. Quel Leviatano hobbesiano che prende oggi le sembianze della Repubblica popolare cinese in grado di tenere insieme l’autocrazia eterna con i dispositivi tecnologici più avanzati al servizio della censura e del controllo politico. In sostanza, a livello di simboli, la maschera antigas (dopo quella di Guy Fawkes) contro il Panopticon in salsa Ict.