Massimo Alberizzi

Un africano, un politico africano che vince il Nobel per la Pace? Ma la politica in Africa non è sinonimo di malgoverno, corruzione, plutocrazia, appropriazione indebita, repressione, propensione alla guerra e alla violenza e così continuando? No, il comitato per il Nobel ha guardato al futuro e ha scommesso su Abiy Ahmed Ali, 43 anni, il premier etiopico che in pochi mesi ha rivoluzionato il suo Paese, tentando anche di chiudere la guerra ventennale con l’Eritrea. E gli ha conferito il premio per la pace. Altri africani hanno vinto il prestigioso riconoscimento (Mandela, Tutu, De Clerk e Johnson Sirleaf) ma in contesti assai differenti e avevano terminato il loro lavoro. Abiy l’ha appena cominciato. Un monito verso altri leader africani? Forse. Lui ha anteposto gli interessi concreti del suo Paese a muscolose dichiarazioni di principio, usate dai leader africani per rimpinguare i loro conti in banca (all’estero e in dollari). Solo il 2 aprile 2018 è stato nominato primo ministro dell’Etiopia, unico Stato africano a democrazia parlamentare, scelto tra gli oromo, etnia maggioritaria ma anche abbastanza emarginata; in Etiopia, infatti comandano i tigrini. Aveva le idee molto chiare su cosa fare. Immediatamente la pace con l’E r itrea. Ed è stato il primo passo. È andato ad Asmara ad abbracciare il sanguinario dittatore Isaias Afeworki e ha subito annunciato che avrebbe ubbidito alla risoluzione della commissione indipendente che aveva assegnato all’Eritrea la sovranità sul piccolo villaggio di Badme, causa della guerra scoppiata nel luglio 1998. “Perché devo combattere per il controllo di una sperduta pietraia in mezzo al nulla? – aveva spiegato lui che a 13 anni era un baby-soldato –. I motivi di orgoglio non sono sufficienti a m a n t en e r e uno stato di allerta lungo i confini con i nostri fratelli eritrei”, era stato il succo del suo discorso. La successiva visita di Isaias ad Addis Abeba e la firma del trattato di pace nel settembre 2018 aveva aperto la porta a grandi speranze soprattutto in Eritrea. Spiragli di libertà in un Paese guidato con il pugno di ferro da una tirannia che sul pianeta trova qualcosa di simile solo in Corea del Nord. Se Isaias avesse aperto le galere dove sono stipati centinaia di prigionieri politici, compresi i suoi amici e compagni di lotta durante la guerra di liberazione, probabilmente oggi gusterebbe il sapore dell’assegnazione del Nobel con Abiy. Già perché la pace si fa in due, e il comitato del Nobel lo sa bene. Se il premier etiopico è stato ricompensato per questo, perché lo stesso riconoscimento non è andato al suo antagonista eritreo? Semplice, perché il secondo dopo aver aderito alla richiesta di far la pace, si è ritirato. E COSÌ LE FRONTIEREterrestri che, con grande ma frettoloso entusiasmo, erano state aperte, sono state richiuse, con conseguente blocco dei commerci transfrontalieri necessari a sostentare l’e c o n omia di regioni lontane da tutto. Mentre Abiy in Etiopia ha continuato a varare riforme l’Eritrea è rientrata nei suoi ranghi fatti di servizio militare ad libitum, repressione di ogni dissenso, pugno di ferro con conseguenti incarcerazioni di massa, controllo totale dei mezzi di informazione che inneggiano così unanimi al regime fascistoide e corruzione. Ad Addis Abeba, al contrario, venivano liberati i prigionieri politici, legalizzati i partiti di opposizione, tolta la censura, privatizzate molte imprese statali, allentati i controlli sui mezzi di comunicazione, abolito il divieto di associazione e arrestati i secondini riconosciuti colpevoli di aver violato i diritti umani. Anche Abiy ha aperto un fronte di guerra: quella contro la corruzione. Il tutto in 18 mesi di governo. Un record non solo per l’A f ri c a , ma per l’intero pianeta. Ad Abiy sono arrivate le più sentite congratulazioni dei capi di Stato e di governo di tutto il mondo. Solo da Asmara –fino al momento in cui andiamo in stampa – s i l e nz i o tombale. Un silenzio assordante che assomiglia proprio a una sberla sulla faccia di Isaias Afeworki, colpito nella sua tracotante arroganza. Per il premier etiopico il lavoro non solo non è finito, ma è appena cominciato. E il Nobel vuol essere anche un’esor – tazione a proseguire sulla strada intrapresa. Pur godendo di una grande popolarità, il suo modo di procedere gli ha procurato anche una gran quantità di inimicizie. Infatti è già stato oggetto di almeno tre attentati. Chi in Etiopia ha perso potere e privilegi non è contento del nuovo corso e fa fatica ad adeguarsi. E poi contro di lui sono schierati i nostalgici di Ethiopia Tikdem, cioè della dittatura militar-comunista di Mengistu Hailè Mariam, che sognano un ritorno al passato.