Non va sottovalutata la richiesta europea di «chiarimenti aggiuntivi» sulla manovra. Serve a ricordare al governo e alla maggioranza che l’apertura di credito ricevuta non è a fondo perduto, e nemmeno scontata. E diventa più insidiosa per il momento in cui la Commissione Ue ha deciso di inviarla: in giorni di tensione e di confusione, che allungano sulle decisioni prese un‘ombra di precarietà e di incertezza. L’ingiunzione di un vertice al premier Giuseppe Conte da parte del ministro degli Esteri e leader del M5S, Luigi Di Maio, e del capo di Iv, Matteo Renzi, non è un segnale costruttivo. Sa piuttosto di sfida, quasi di provocazione. Suona come una sorta di monito a ricordare che la sua coalizione deve rispondere a troppi protagonismi e micro-interessi; e può ritrovarsi di colpo appesa a un filo. Lo smarcamento più sconcertante è quello dei Cinque Stelle. Sembra proprio che Di Maio, rassegnato regista della maggioranza col Pd e della seconda presidenza Conte, stia proponendosi come il «nuovo Salvini». Chiede, anzi pretende il marchio grillino sulle misure da approvare. Quasi minaccia il presidente del Consiglio, accusandolo di collusione col partito di Nicola Zingaretti, negandogli quel ruolo di garanzia che lo ha riportato a Palazzo Chigi come punto di equilibrio.
D i Maio cerca di ritagliarsi il ruolo di «uomo forte» mentre la sua leadership nel Movimento è traballante; o forse proprio per questo. E facendolo incrocia le ambizioni della neonata Iv, che esclude crisi mentre accarezza operazioni trasformistiche, guidata da una gran voglia di dimostrare che esiste. Si sottovalutano le incognite che una simile involuzione promette di inserire nella vita del governo Conte e dell’intera legislatura. Il risultatoèche, appena un mese e mezzo dopo la sua formazione, l’esecutivo appare già sgualcito. Se si pensa che doveva promuovere una solida alleanza tra Cinque Stelle e Pd, proiettarsi nel tempo e dare vita a una sorta di amalgama, la regressione è evidente. Il fatto stesso che ieri, a Palazzo Chigi, prima dell’incontro collegiale il premier abbia dovuto vedere ogni singolo partito, dice già molto. Lascia capire che lo vogliono costringereamediazioni multiple; che si profila una continua trattativa non tanto sui contenuti ma sulle convenienze dell’uno o dell’altro alleato. I comportamenti che si delineano non rimandano a una stagione di governo ma all’ennesima campagna elettorale. Può darsi che dipenda anche dalla prossimità del voto di domenica in Umbria, dove è data per probabile una vittoria del centrodestra. Significherebbe che, al di là dell’«esperimento» dell’accordo M5S-Pd in quella regione, Di Maio accentua una polemica preventiva per recuperare voti e in parallelo giustificare una sconfitta grillina. Il problema è che cosa succederà se le previsioni verranno confermate. L’ipotesi che il governo nazionale non sia sfiorato dagli effetti collaterali di un voto umbro risulta improbabile. Ma se il gioco a smarcarsi è figlio della paura, bisogna attendersi un’accentuazione del nervosismo verso Palazzo Chigi. Su questo sfondo la lettera di Bruxelles finisce per assumere il carattere di un avvertimento a non deragliare dagli accordi presi; a non seguire logiche di partito che mostrerebbero un’Italia di nuovo indebolita. Quando il capo della Lega e della nuova destra Matteo Salvini annuncia che «presto» si tornerà alle urne, e che se cade Conte bisogna andarci a tutti i costi, esprime una speranza. Sa che se il governo dura, il suo martellamento dovrà fare i conti con tempi più lunghi, e dunque rischia di risultare meno efficace. Vedendo quanto accade nella maggioranza, tuttavia, Salvini ha buone ragioni per sostenere questa tesi. Nella coalizione c’è chi lavora per lui, anche senza volerlo, trascurando pericolosamente le implicazioni europee di un logoramento. Di Maio dovrebbe capire che delegittimando Conte come garante della maggioranza e creando le premesse per la sua caduta, non salverebbe il suo ruolo. È probabile che otterrebbe solo una frattura nel Movimento, foriera di sconfitte perfino peggiori di quella subìta alle Europee del 26 maggio. Utilizzare i voti raccolti dai Cinque Stelle nel 2018 come rendita di posizione per tenere sotto ricatto il Parlamento rivendicando una centralità ormai virtuale, non è una politica. Prima o poi, e Salvini lo ha dimostrato in agosto pagando un prezzo alto, le forzature possono sfuggire di mano e diventare regali agli avversari; e le mire su Palazzo Chigi, tanto più se affidate a interlocutori sbagliati, rivelarsi velleità senza un barlume di fondamento.