Massimo Gaggi

L’ America è spaccata a metà su (quasi) tutto, ma su Donald Trump, il personaggio che divide più di chiunque altro, è diffusa una sensazione comune: il suo effetto (per alcuni devastante, per altri virtuoso) sulla politica Usa è, ormai, irreversibile. Il linguaggio brutale, la tendenza a distorcere la realtà o, addirittura, a negare l’evidenza dei fatti (ultimi episodi la difesa a oltranza delle mappe meteorologiche dell’uragano «truccato» e le dimissioni di John Bolton trasformate via tweet in brutale licenziamento), ma anche i rapporti conflittuali con gli alleati, l’America First e la tentazione isolazionista, sono ormai penetrati sotto la pelle del Paese. Sono cellule staminali che potranno evolvere in modo diverso a seconda di chi governerà in futuro, ma faranno comunque sentire la loro influenza. Anche perché Trump, diverso in tutto dai suoi predecessori, anche se verrà sconfitto alle elezioni 2020, non uscirà di scena in silenzio come hanno fatto Obama o i Bush: è pur sempre un maestro della comunicazione «bombastica» e ha 62 milioni di follower su Twitter. Ma, davanti alla determinazione con la quale continua a dire cose che fanno infuriare perfino i conservatori moderati, anche ora che una raffica di sondaggi elettorali allarmanti dice al presidente che deve recuperare consensi al centro, è forse venuto il tempo di rivedere certe analisi. Chi fin qui si è concentrato sul temperamento del presidente — narcisista, permaloso, irascibile — comincia a chiedersi se nei suoi atteggiamenti estremi non ci sia, oltre a questo, anche altro. Se, cioè, Trump non sia diventato prigioniero della sua base elettorale. L’ha alimentata per anni col suo linguaggio tuonante, ha giurato intransigenza su molti temi (come la libertà totale di armarsi). Ora capisce che sarebbe tempo di cambiare rotta, anche per ampliare la base di consensi, ma teme di perdere pezzi del suo zoccolo duro: gente che non voterà mai per un democratico ma, davanti a un Trump visto come «rammollito», potrebbe scegliere di restare a casa il giorno delle elezioni. Il presidente sa che, se non conquista nuovi consensi, può perdere la Casa Bianca. Ma sa anche che la sconfitta sarà sicura se verrà mollato anche solo da una frangia di fedelissimi negli Stati chiave che nel 2016 gli hanno fatto vincere la sfida con Hillary Clinton pur prendendo tre milioni di voti meno di lei.