Massimo Gaggi

Twitter decide di non accettare più pubblicità elettorale perché considera quella veicolata online troppo potente, personalizzata e manipolabile, mentre Facebook la mantiene anche quando verifica che diffonde affermazioni false. Dice di farlo in nome della libertà d’espressione e del diritto degli elettori di vedere tutti i messaggi, anche quelli ingannevoli. La decisione di Jack Dorsey viene attaccata da destra mentre il rifiuto di Mark Zuckerberg di cambiare rotta fa infuriare la sinistra Usa. Solito muro contro muro tra repubblicani e democratici anche sulla pubblicità politica? Attenti: i tempi sono cambiati e per capirlo basta analizzare la furiosa reazione del capo della campagna di Trump, Brad Parscale: «La scelta di Dorsey è stupida: un altro tentativo di ridurre al silenzio i conservatori perché Twitter sa bene che noi abbiamo la macchina elettorale digitale più sofisticata mai costruita». È vero, ma qui il principio della libertà d’espressione c’entra poco, visto che l’efficienza di quella macchina non consiste in una superiore capacità di veicolare messaggi convincenti, ma nell’uso dei dati personali di ogni singolo cittadino perinfluenzare o addirittura manipolare le sue scelte. Nell’era di big data puoi inviare messaggi personalizzati a ogni consumatoreoelettore sulla base di un profilo individuale capace di scoprire, attraverso la psicografica, idee, gusti e anche vulnerabilità psicologiche: una rivoluzione che va ben oltre la pubblicità.

È un mondo nuovo e non regolato (o con norme concepite per un’altra realtà) nel quale gli strumenti di analisi e comunicazione e l’uso del microtargeting — nel commercio come in politica — sono diventati talmente potenti e sofisticati da poter essere usati come armi che mettono in pericolo la democrazia. Se ne è vantato tante volte, prima in riunioni riservate, poi anche nelle presentazioni pubbliche ai potenziali clienti, perfino Alexander Nix, il geniale e diabolico capo di Cambridge Analytica, prima di essere travolto dallo scandalo dell’uso illegale dei dati di Facebook per favorire la campagna 2016 di Donald Trump: «Noi non siamo un’agenzia di pubblicità, ma una società che usa la scienza dei dati e la psicografica per influenzare il comportamento delle persone e anche il loro voto». Quello che è accaduto nel 2016 non è un caso isolato: la Scl, società britannica, madre di Cambridge Analytica, ha condotto per oltre vent’anni campagne miranti ad alterare il risultato di elezioni in molti Paesi, dalla Nigeria all’Indonesia. Prima di inciampare nello scandalo, Nix non ne faceva mistero (e parlava della raccolta di dati come di una «corsa agli armamenti») perché aveva tra i suoi clienti anche alcuni governi occidentali e la Nato che usavano le

sue campagne psicologiche anche per cercare di arginare la diffusione delle ideologie terroriste di Al Qaeda e dell’Isis nel mondo islamico. Ma, come scrive il president di Microsoft Brad Smith nel suo recente «Tools and Weapons», un saggio nel quale chiede ai governi di regolamentare tecnologie ormai troppo potenti, questi strumenti digitali stanno diventando un pericolo per la democrazia: sono usati da molti come armi anziché come attrezzi socialmente utili. Perché ci svegliamo ora se le manipolazioni vanno avanti da vent’anni? Per due motivi: il primo è che le campagne nei Paesi del Terzo mondo «non facevano notizia». La stampa anglosassone è scesa in campo quando nel mirino sono finiti Brexit e le presidenziali americane. Il secondo è che la potenza degli strumenti psicologici è enormemente aumentata con lo sviluppo di big data e dei canali delle reti sociali: Nix sosteneva di avere un database con 240 milioni di cittadini americani, ognuno dei quali profilato con una media di cinquemila dati. Sceglieva gli elettori in bilico e li raggiungeva via social network con messaggi personalizzati. Cambridge Analytica non c’è più, ma, in assenza di regole, negli Usa queste tecniche stanno diventando di uso comune nelle battaglie elettorali. E la diffusione di nuove, inquietanti tecnologie come il deepfake (filmati falsi) renderà tutto ancor più caotico. Elezioni falsate? Forse, ma basta già l’inevitabile diffusione di disaffezione e cinismo per minare ulteriormente la democrazia. L’uomo della strada può non saperlo, ma Zuckerberg lo sa benissimo.